28 marzo 2018

Educazione spirituale fra torba, tempo e bruma: il Whisky scozzese

Educazione spirituale fra torba, tempo e bruma: il Whisky scozzese

Per scrivere ho bisogno solo di carta, tabacco, cibo e un po’ di whisky.

(William Faulkner)

Niente di più vero per me che scrivo dell’ultima degustazione Fisar condotta da Leonardo Finetti, che traligna dai nostri consueti percorsi sulle rotte del vino, alla scoperta del mondo di uno dei distillati più noti: lo scotch whisky.

Absit iniuria verbis, chiariamo subito l’importanza delle parole: il whisky è scozzese, il whiskey irlandese. Due prodotti diversi, anche se le caratteristiche di certi whisky prodotti nelle Lowlands, al confine con l’Inghilterra, tendono a coincidere maggiormente coi whiskey irlandesi, più morbidi e con affumicatura moderata, rispetto agli omonimi delle Highlands. Ma procediamo per gradi, che la materia è complessa  e le sensibilità spiccate.

Scozia e Irlanda, di chi è la primogenitura del distillato?

Entrambi prodotti anche in altre regioni del mondo (Canada, Australia, Giappone il whisky, USA il whiskey), trovano però la loro culla, e tutt’oggi luogo d’elezione, in queste due nazioni, ciascuna risoluta nel rivendicare la paternità originale del distillato di malto d’orzo e cereali.

Pare che Enrico II d’Inghilterra, intorno al 1171, recatosi in Irlanda per ristabilire un ordine interno e tentare la scalata a un trono vacante, trovi un paese dilaniato da fronde contrapposte e scisso dall’interno, ma in cui già si pratica la distillazione.

Dal canto suo, la Scozia vanta il primo documento ufficiale in cui è nominato il distillato: è del 1494 e registra la consegna di un quantitativo di malto a tale frate John Corr, che ne otterrà Uisge beatha (acquavite in gaelico), termine che, per evoluzione sintattica, ci condurrà all’odierno whisky.

Non è fondamentale dirimere qui la questione, ci basti la certezza che a diffondere i rudimenti della distillazione sia stato alla fine del XII secolo Michele Scoto, alchimista e scienziato di origine scozzese, che per primo studia e traduce i testi arabi in cui il procedimento fino ad allora ignoto era esposto.

Una storia fatta di slanci e brusche frenate

Ci sono due cose che un Highlander ama nude e pure, e una di queste è il whisky
(Detto scozzese)

La storia del whisky vive di continue sorti alterne: alla fine del Settecento trascende dallo status di semplice bevanda, ed è già indissolubilmente legato alla cultura scozzese. Si beve molto whisky a 60°, così come esce dalla distillazione, allungandolo con acqua. La pratica dell’affinamento in botte non è ancora in uso.

La produzione del distillato è copiosa, fin troppo: la sovrapproduzione mostra ben presto i suoi effetti nefasti. Penuria di cereali per l’alimentazione umana, dirottati nella produzione del distillato, e primi effetti sociali dati dalla dipendenza da alcool di larga parte della popolazione.

Il parlamento inglese legifera drastiche contromisure: controllo della produzione e tasse esose per le distillerie, circostanza che segna una netta differenza fra produttori di Lowlands e Highlands.

La maggior parte delle distillerie si concentra nella parte meridionale (Lowlands), dove viene prodotta una gran quantità di distillato di qualità piuttosto mediocre, destinato in parte all’esportazione in Inghilterra, dove subirà un’ulteriore rettificazione per diventare gin.

Il vasto e aspro territorio delle Highlands dal canto suo, si presta a diventare nascondiglio perfetto per una serie di piccole distillerie clandestine, difficili da identificare dai controllori statali: ad Edimburgo si stima sorgano 400 distillerie non ufficiali a fronte delle 8 regolarmente registrate.

Provvidenziale per riscaldare i forni dove l’orzo germinato viene fatto essiccare  l’uso della torba che, non producendo fumo, non disvela ad occhi esterni la presenza della distilleria.

Aurea di romantica clandestinità a parte, è proprio qui che si pratica una distillazione in scala minore, ma di grande qualità.

Cambia tutto nel 1823, quando l’Excise Act ristabilisce equità di regime fiscale: molte piccole distillerie escono dalla zona d’ombra della clandestinità, intraprendendo una vasta opera di rinnovamento degli impianti.

I nuovi imprenditori si lanciano alla conquista del mercato mondiale, non senza pagare pegno: si diffonde la pratica, autorizzata da una legge ad hoc del 1850, di miscelare whisky di malto con whisky di altri cereali, per realizzare i Blended, che, di fatto, ammortizzano e abbassano i costi di produzione, rendendo i distillati più appetibili sui mercati esteri.

Tutto procede a gonfie vele fino all’inizio del XX secolo, quando recessione economica e Grande Guerra impongono uno stop forzato al periodo d’oro appena trascorso: molte distillerie chiudono.

Il proibizionismo americano infligge un altro duro colpo al mercato del whisky scozzese.

Fra sorti alterne e avverse fortune, barcamenandosi fra il periodo nefasto della Seconda guerra mondiale e la crisi a cavallo fra anni ‘60 e ‘70, molte distillerie cessano la produzione o passano di mano, acquistate da grandi gruppi industriali.

Cambia la percezione del pubblico fruitore: i Blended vengono considerati come prodotti di scarsa qualità, a favore di un rinnovato interesse per il Single Malt (ovvero il whisky di una singola distilleria prodotto solo con malto d’orzo).

La situazione odierna vede la presenza di uno zoccolo massiccio di estimatori, soprattutto di Single Malt, con conseguente impennata dei prezzi, e strategie commerciali non sempre di specchiata onestà: prova ne sia l’increscioso caso del NAS, (No Age Statement), un whisky che esce sul mercato senza indicazione d’età in etichetta, con l’unico vincolo dei tre anni d’affinamento, e che, oltre a lasciare al produttore una libertà d’elaborazione che ben poche volte si traduce in effettiva qualità dello stesso, viene venduto a un prezzo sproporzionato.

La nascita dei  NAS è, del resto, strettamente correlata all’aumento della domanda del prodotto: se non posso aumentare la produzione di distillato all’aumento della richiesta, posso però trovare il modo di farlo uscire prima dalla cantina, omettendo il particolare dell’età, e il gioco è fatto. Sacrifico una bottiglia di futuro 12 o 18 anni in conto del pronto guadagno, that's business, baby...

Come si produce e cosa si intende per whisky

In breve e per sommi capi, il processo di produzione dello scotch whisky: parte tutto dall’orzo che non è quasi mai di provenienza locale; spesso acquistato, anche già maltato, dall’America o dai paesi del Nord Europa.

La maltazione consiste nella germinazione parziale del chicco, prima idratato e poi essiccato, al fine di rendere più solubili gli amidi in esso contenuti, che si trasformeranno più facilmente in zuccheri fermentabili. L’essiccazione avviene in forni alimentati da torba che, a seconda delle proprie caratteristiche intrinseche darà sentori affumicati di diverso tipo e intensità.

Per completare il processo di passaggio da amidi a zuccheri il malto viene macinato (grist) e messo in infusione in un grande recipiente (mash tun) con acqua calda, diventando un mosto fermentescibile chiamato wort, poi spostato in vasche (washback) e inoculato di lieviti selezionati: si otterrà una birra di 7°-8°, oggetto di successiva distillazione che, solitamente avviene in due tempi e in due diversi alambicchi.

Il primo alambicco (wash still), più grosso, è riscaldato lentamente fino a raggiungere l’ebollizione: dall’evaporazione e  successiva condensa si ottiene il cosiddetto low wine.

Questo primo distillato è raffreddato e convogliato in un alambicco più piccolo, lo spirit still; è a questo punto che ad opera dello Stillman avviene la separazione tra teste, code e cuore: la parte iniziale e quella finale della distillazione verranno scartate,  solo la parte centrale diventerà whisky.

Il cuore esce dallo spirit still a 65°-72°: verrà tagliato con acqua per abbassare la gradazione prima di essere indirizzato all’affinamento in botti di quercia ex Bourbon o ex Sherry, di solito della capacità di 250 litri. Usate, ma molto più rare, anche botti ex Porto, Madeira, Rum, Sauternes.

Grande attenzione è prestata allo stile d’invecchiamento e al tipo di botti usate, che, si dice, influenzino per il 70% il prodotto finale.

Ovviamente, anche il numero di anni passati in botte caratterizzerà fortemente il whisky, che perderà ogni anno fra lo 0,5% e l’1,5% di alcool e il 2% d’acqua, che, evaporando, daranno vita alla cosiddetta Parte degli angeli.

Al termine dell’affinamento il distillato può essere imbottigliato puro (cask strength) o addizionato d’acqua fino a raggiungere i 43°-46°.

Può anche essere sottoposto a filtraggio a freddo e aggiunta (se avviene, di solito piuttosto blanda), di colorante E 150.

Se è plausibile che ogni whisky sia ottenuto dall’incrocio di variabili produttive diverse, è altrettanto vero che per essere definito tale deve rispettare le norme stabilite dello Scotch Whisky Regulations: originato da acqua e malto d’orzo ed eventualmente grani interi di altri cereali, il cuore della produzione risiede in una distilleria scozzese, all’interno della quale devono tassativamente avvenire la macerazione dei cereali, la fermentazione e l’affinamento, protratto per almeno 3 anni.

Queste le conditio sine qua non, oltre le quali si aprono infinite possibilità e scelte produttive, dettate dalla capacità e sensibilità dello Stillman, dalle forme e dimensioni degli alambicchi scelti per la distillazione, dalle botti usate per l’affinamento, e, non ultimo, dal luogo in cui si trova la distilleria che, a causa di torbe di tipo diverso e variabili climatiche a sé stanti, ha tanta parte nel determinare il carattere intrinseco finale del distillato.

Dalla teoria alla pratica

Se il preambolo è stato piuttosto impegnativo, in quanto calati in un una realtà lontana dalle nostre consuetudini, la degustazione procede spedita, guidata con mano sicura da Leonardo Finetti che, nonostante la febbre e l’influenza, ci conduce alla scoperta di quasi tutte le zone produttive interne alla Scozia e, grazie a prodotti di nicchia di distillerie artigianali, ci presenta 5 whisky (più uno a sorpresa, ma di cui per ora non conosciamo la provenienza), tutti natural color e un-chillfiltered

Qualche appunto prima di cominciare, utile a chiarire il galateo del whisky.

Il bicchiere giusto

Dopo anni di pubblicità in cui distillati dal gusto chiaro e pulito (sigh!) venivano versati a profusione in tumbler bassi riempiti di ghiaccio come se non ci fosse un domani, capiamo quanto la televisione faccia il lavaggio del cervello.

Il bicchiere giusto dove gustare un buon whisky è il Glencairn glass un bicchiere a tulipano, dove gli aromi possano agevolmente salire in superficie, essendo però trattenuti per evitarne la dispersione in breve tempo.

Ghiaccio, qualcuno ha nominato o pensato al ghiaccio? Certo noi no, seppur lobotomizzati da anni di Michele l’intenditore, sappiamo che il ghiaccio non ha altra azione se non quella di annacquare distillato e aromi, abbassando oltretutto la temperatura di degustazione ideale, che si attesta intorno ai 15°C.

Ammesso e presente nel kit a nostra disposizione stasera un cucchiaino, con cui diluire il distillato, gradualmente, in modo blando e a discrezione del nostro gusto personale, con piccole aggiunte di acqua liscia, che, soprattutto nei whisky dall’attacco più austero, ha la capacità di liberare e far affiorare più facilmente le sostanze aromatiche. Una curiosità, l’aggiunta di acqua provoca nel bicchiere il fenomeno della scotch mist, ovvero il lieve intorbidimento del distillato, capace di sprigionare in modo più netto aromi non immediatamente percepibili.

Le zone di produzione principali

Come detto, esiste un’influenza regionale nella produzione del distillato, e a tal proposito, si distinguono tre macroaree di provenienza: le Lowlands, la parte al confine con l’Inghilterra, non rappresentate nella degustazione di stasera, le Highlands, a loro volta suddivise nelle sottozone di Speyside, Islands e Islay, in cui si trova la maggior parte delle distillerie, nonché le più note, e Campbeltown, zona di antico splendore: delle più di 30 distillerie che erano qui in attività ai primi del ‘900, ne sopravvivono oggi solo 3, Springbank , Glengyle, afferenti alla stessa proprietà, e Glen Scotia.

La degustazione

La complessità al naso dei distillati di stasera risulterà eccezionale in ogni caso; la degustazione seguirà la scala ascendente del grado di torbatura.

Cominciamo il viaggio proprio da Campbeltown con il  Kilkerran 12 anni di Glengyle.

Springbank, ha acquistato la distilleria, ma non il marchio; da questa circostanza il cambio di nome. Oltretutto, il prefisso Glen- va tradizionalmente a comporre il nome dei distillati prodotti nello Speyside, non risultando perciò appropriato in questo contesto.

Essendo la distilleria diventata operativa nel 2004, questo è il prodotto più vecchio immesso ad oggi al commercio.

Distillato a 68°, tagliato a 64° prima dell’affinamento, che subisce per il 70% in botti ex Bourbon e per il 30% in botti ex Sherry.

Prima dell’imbottigliamento viene diluito fino ad arrivare a 46°.

Attacco acuto e pungente, per un whisky in cui dominano ancora gli aromi di distillazione. Note medicinali e marine austere, tipiche dei distillati provenienti dalla costa ovest. L’aggiunta di acqua rivela note di frutta tropicale ed erbe officinali, salvia e genziana, fiore di camomilla, e accenno di vaniglia. Nota finale tipica di the. Siamo di fronte ad un whisky potente e ricco, in cui l’affumicatura è piuttosto lieve: nessun dubbio che sia ancora la forza del distillato ad imporsi, nella sua prima maturità, appena smorzata dal legno, al momento.

Presumibilmente i futuri 16/18 anni rilasciati sul mercato saranno più morbidi, meno severi.

L’evoluzione nel bicchiere evidenzierà un sostanziale miglioramento, sprigionando note torbate, ma anche sentori dolci di zucchero a velo.

Il secondo assaggio ci porta già nel territorio sconosciuto del whisky misterioso (ebbene sì, scopriamo subito che sempre di whisky si tratta, suspense un po’ frustrata, ma ripagata dall’assaggio), che si impone subito con una speziatura importante e aromi netti di mela verde, zeste di limone, frutta tropicale. Si presenta più gentile e meno pungente del precedente. L’aggiunta di acqua riesce a far emergere un timido accenno di vaniglia e burro di cacao. Il legno resta poco percettibile, indizio di un distillato ancora giovane. Pieno in bocca, morbido, cambierà significativamente, esprimendo nel tempo note balsamiche dolci di anice e caramella mou. Purtroppo ad una bella evoluzione al naso non corrisponderà altrettanta piacevolezza al palato, ma si può perdonare qualche incertezza a questo distillato, vero audace esperimento della distilleria  Puni di Bolzano, che per prima in Italia, nel 2012, ha tentato l’impervia via della produzione di whisky in una regione certo non vocata allo scopo. Puni Nova, prodotto con malto d’orzo, di segale e di grano, è il primo prodotto rilasciato, dopo un affinamento di 3 anni in botti ex Bourbon, e imbottigliamento a 43°. Nel 2019 uscirà sul mercato il loro primo whisky 100% malto d’orzo. E certamente, noi saremo tutti pronti all’assaggio.

Torniamo alle brume scozzesi, esattamente nella zona delle Highlands, dove la tendenza produttiva è quella di elaborare whisky più morbidi e aperti  di quelli della zona di Campbeltown, dal tipico finale secco e asciutto (anche se, va ricordato, spesso lo “stile della casa” detta legge, prevaricando le distinzioni regionali comode ma riduttive).

La distilleria Clynelish viene fondata nel 1819, e vivrà di alterne fortune, finendo per essere completamente ricostruita vicino alla distilleria originale, che è stata attiva per un certo tempo col nome di Brora, e la cui produzione era principalmente incentrata nell’elaborazione di Blended.

Il Clynelish 1996 Un-Chillfiltered Collection è un cask strenght, ovvero imbottigliato così come esce dalle botti d’affinamento, senza aggiunta di acqua, dall’indipendente Signatory Vintage.

Invecchiato in botti ex Sherry di secondo passaggio e messo in bottiglia a 46° nel 2017.

Si ritrova subito anche in questo caso la componente marina, ma è più piena e presente di quella del Kilkerran 12 anni. Seguono note resinose di cipresso e pino marittimo. L’affumicatura è piuttosto blanda.

In bocca si esprimono note fruttate e dolci di caramella toffee, di cera d’api, di zucchero di canna.

L’aggiunta di acqua cambia molto il profilo aromatico, facendo emergere sentori di banana, mela cotta, cedro candito, erbe officinali con un finale che si chiude su note di menta piperita e the al gelsomino. Molto riconoscibile in questo caso l’impostazione data dalla botte di Sherry, che cede aromi di frutta secca e uvetta passa.

L’evoluzione nel bicchiere tirerà fuori il sulfureo e la tostatura, e riproporrà aromi molto eleganti di erbe e menta.

Ci spostiamo nel cuore pulsante della produzione scozzese, ovvero nello Speyside, sede dei 2/3 delle distillerie operative: i grandi nomi, per importanza, qualità o fama si trovano qui (Glenlivet, Glenfiddich, MaCallan solo per fare qualche esempio). Va da sé che i distillati di questa zona sono considerati i migliori per eleganza e ampiezza. La distilleria Benrinnes si distingueva un tempo per la tecnica produttiva a tripla distillazione parziale, abbandonata nel 2012 a seguito dell’ammodernamento con totale automazione dell’impianto. Il whisky che abbiamo nel bicchiere è una delle ultime bottiglie presenti sul mercato prodotto con questa particolare tecnica che, in sintesi prevede la presenza di un terzo alambicco che distilla solo le code deboli. È un single cask (cioè prodotto da una singola botte e non da assemblaggio di botti diverse) e un cask strenght, imbottigliato nel 2014 a 64°, dopo l’ invecchiamento in Sherry Butt da 500 litri.

Distilleria conosciuta più per la produzione di Blended, conferisce questo single malt all’imbottigliatore indipendente Douglas Laing.

Il Benrinnes 15 anni Single Cask Old Particular risulta da subito molto caratterizzato dalla botte in cui invecchia: sprigiona aromi generosi di uvetta, frutta secca, bastoncino di liquirizia. Note speziate dolci di pan di zenzero, e sentori resinosi. Finale di the nero, anche affumicato, ampio e morbido.

Nonostante il grado alcolico importante spaventi, in bocca è ampio e morbido.

L’aggiunta successiva di acqua conferma l’importante speziatura ed evidenzia un distillato ben equilibrato ed armonico nelle sue componenti, meno complesso del precedente Clynelish, ma estremamente elegante.

Il quinto whisky è un prodotto di confine: ci troviamo nel distretto delle Highlands, ma in forte prossimità con lo Speyside.

Glendronach, fondata nel 1825, vive vari passaggi di mano, fino al 2008, quando BenRiach la acquista, applicando alla produzione una filosofia improntata alla tradizione più pura. Fino al 2005 questa è una delle ultime distillerie ad avere alambicchi riscaldati a fuoco diretto, circostanza che non poco influisce sul carattere del distillato finale: l’azione diretta del fuoco, oltre a rendere più difficoltoso tutto il processo produttivo, dà distillati molto muscolosi, con evidenti note caramellate.

Affinato in botti di Sherry Oloroso di primo passaggio, e imbottigliato a 46°, il Glendronach 18 anni Allardice ha un attacco brusco e pungente, con note sulfuree e balsamiche molto forti. Gomma bruciata, catrame, torba inondano il naso. Presenti note ossidative ereditate dalla botte di Sherry. Sentori spinti di caramello. L’aggiunta di acqua non migliorerà più di tanto l’apertura di questo distillato, che avrebbe bisogno per distendersi di un periodo di tempo  maggiore di quello che noi abbiamo a disposizione stasera. Lo spettro olfattivo si amplia aggiungendo sentori di fieno e di erbe aromatiche. Quando più tardi lo andremo a rivedere sarà leggermente migliorato, restando però ancora in fase d’apertura. Potente nell’intensità, molto personale nel gusto.

Chiudiamo col whisky più caratterizzato dalla torba di stasera: il Ledaig 13 anni Single Cask,  prodotto nelle Islands, esattamente nella zona di Mull, dove si trova una sola distilleria, Tobermory, che elabora due whisky diversi e perfettamente antitetici fra loro: Tobermory, non torbato, e Ledaig, molto spinto nella torbatura.

Imbottigliato dall’indipendente Elixir Distillers, invecchia 13 anni in botte ex Bourbon, fortemente caratterizzante, ed è single cask (prodotto di unica botte) e cask strenght, imbottigliato puro a 55° nel 2017.

Note di torba e affumicatura molto presenti, ma si percepiscono anche sentori dolci di miele e frutta secca in sottofondo. In bocca prevale la mineralità. L’aringa affumicata è il primo attacco netto che ci avvolge all’uscita dal bicchiere che distendendosi nell’aria migra verso sensazioni più calde dei profumi dei tizzoni spenti nel camino.

L’aggiunta di acqua sprigiona aromi dolci di frutta fresca, spezie, menta piperita e chiusura tipica con sentori di the.

Purtroppo il tempo è tiranno, e anche di questo distillato non riusciremo a cogliere appieno l’evoluzione nel bicchiere.

Concludiamo la serata grati per aver fatto un viaggio che esula dalle nostre rotte abituali, ma che ci ha dato la possibilità di toccare da vicino la varietà produttiva di un distillato che racchiude in sé lo spirito di una nazione intera.

A chiusura, le parole di un autore scozzese che di whisky ha parlato e scritto molto, e che sintetizzano al meglio come l’avvicinamento critico al whisky sia una vera e propria “educazione spirituale” alla Scozia e alla sua essenza:

“Il Whisky è la quintessenza della Scozia. A ogni sorso ricorda la terra d’origine, con la sua torba, i suoi cespugli di mirto, il sole sul lago, la pioggia sulla montagna, le spiagge bianche e gli spruzzi salmastri.” (Charles Maclean)

Valentina Pizzino
Valentina Pizzino

Nata a Firenze da una famiglia di astemi, non ha mai dubitato che nelle sue vene scorresse Chianti Classico. Lavora fra i libri, ma gli scaffali che preferisce sono quelli delle enoteche. Il suo centro di gravità permanente è sempre ruotato attorno a una bottiglia.

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