20 settembre 2018

Cronaca semiseria di un mondiale (non) mancato: se Italia e Francia si sfidano in una sera d’estate

Cronaca semiseria di un mondiale (non) mancato: se Italia e Francia si sfidano in una sera d’estate

Mi perdoneranno coloro che hanno fede calcistica più ferrea della mia se giro il coltello nella piaga di un mondiale sfumato in fretta, ma annuncio subito il cambio campo: non quello russo di erbetta verde perfettamente rasata che i giocatori della nazionale italiana non hanno avuto l’ònere, o l’onóre, di calpestare, ma quello a noi più familiare e ricco di odierne soddisfazioni del vino in tutte le sue declinazioni.

Stavolta la storica rivalità Italia-Francia passa attraverso la degustazione di una rappresentanza più o meno agguerrita di vini rosati di entrambi gli schieramenti, e ognuno, durante l’ultima serata di degustazione prima della pausa estiva, avrà da dire la sua.

Chi vince? vorrei tanto assecondare la naturale tendenza al tutto e subito, ma la mia parte più saggia che si ostina a sopravvivere nonostante attenti continuamente alla sua esistenza, mi suggerisce prudenza, se spero che qualcuno fra i più volenterosi arrivi alla fine della lettura: se brucio la suspense, addio.

Come in tutte le storie che si rispettino, iniziamo dall’inizio…

Nessun dubbio che i rosé francesi abbiano tradizione, storia e blasone ben più prestigiosi dei nostri rosati: da sempre ( e se a questo “sempre” dovessimo dare data ed età potremmo andare a ritroso almeno fino al X secolo d.C.) esistono zone incentrate esclusivamente sulla produzione di questa tipologia di vini. I papi d’Avignone, il poeta Pierre de Ronsard, i re Francesco I e Filippo il Bello sono bevitori assidui di vino rosato. Honoré de Balzac apostrofa il rosato prodotto a Tavel, nella Côtes du Rhône, come il re dei vini, perché longevo e capace di invecchiare migliorando le proprie caratteristiche, prerogativa da sempre dei rossi più pregiati.

Per amor di completezza sia detto che l’affermazione di Balzac non è scevra da una certa vis polemica direzionata contro i vicini rosati provenzali, da lui considerati più grossolani e di qualità mediocre. Cosa penserebbe oggi lo scrittore del fatto che ben il 15% di tutte le bottiglie di rosato stappate nel mondo proviene da questo piccolo fazzoletto di terra (poco più grande della Sicilia, per intendersi), e che anche il consumo interno è coperto per il 75% da vini della Côte de Provence AOC, non ci è dato saperlo. Forse, per fortuna.

Aldilà delle zone già citate, si produce vino rosato con ottimi risultati anche nel bacino della Loira (rosati d’Anjou), in Corsica, da Nielluccio e Grenache, nel Bordolese e in Borgogna (nel Marsannay ottenuto dall’uva borgognona per antonomasia, il Pinot Noir).

In un recente viaggio a Parigi mi sono stupita non poco delle carte dei vini con un’apposita (e ampia) sezione riservata ai vini rosati, e delle vetrine delle enoteche dedicate per ampia parte all’esposizione, e quindi promozione, dei rosati: si ha l’idea che qui questa tipologia detenga una salda fetta di mercato, produttori, ed estimatori, a lei dedicata. Che benefici, in altre parole, di una collocazione chiara e netta nella storia e nella cultura vinicola, circostanza preclusa in Italia, perché da sempre un po’ relegata al ruolo di “vino minore”.

Una giovane e gentile enotecaria di Rue des Martyrs mi spiega che il vino rosato non ha alcuna connotazione stagionale: è il vino bevuto a Natale, nelle grandi occasioni, o d’estate, nei café en plein air: tout simplement, on aime boire des vins rosé…

Eh già, tout simplement: le differenze con l’Italia cominciano a stridere.

La distanza fra Italia e Francia allunga il passo...

Leggo, un po’ scettica, un po’ incuriosita, teorie che legano lo scarso appeal del rosato in Italia, alla poca fortuna del colore rosa, simbolo di femminile debolezza in contrapposizione al tanto celebrato (in varie epoche, da quelle più lontane, a giorni insospettabilmente a noi prossimi) machismo del maschio italico.

Certo è che il vino rosato, con un sottinteso snobismo che non sfugge, è sempre stato considerato vino da signorine, qualunque sia la realtà o circostanza che quest’espressione si prefigge di descrivere, e che non riesco a cogliere nonostante compia grandi sforzi di analisi critica in tal senso.

Aperta parentesi.

Per quanto lievemente stagionata e senza alcuna presunzione di essere paradigmatica della categoria tutta, credo di poter rientrare nell’idea della “signorina” così come comunemente intesa: ebbene, mai bevuto frizzantini, amabili, rosatelli da scaffale basso di supermercato, né tantomeno discutibili preparazioni liquorose casalinghe con tre dita di zucchero non sciolto sul fondo che rispondono ai vari nomi di mirtillini, fragolini, allorini, e che puntualmente ristoratori stufi di avere le dispense piene di queste ciofèche tentano di rifilarmi perché si sa che le donne amano il dolce e le bollicine. Basta, è ora di dare un taglio al ridicolo e ai luoghi comuni. Al prossimo frizzantino o fragolino, mordo, e non credo di essere la sola. Tutti avvertiti.

Chiusa parentesi, un po’ goliardica ed esacerbata, ma utile alla nostra teoria: liberarsi dai luoghi comuni aiuta tutti, anche i rosati italiani, che non sono affatto vini da signorine, ma, anzi, nascono storicamente in Italia da intenti maschi.

È il 1943 quando Leone de Castris elabora in quel di Salice Salentino, il Five Roses, 90% Negroamaro e 10% Malvasia nera, passato alla storia come primo rosato prodotto in Italia.

Perché un nome che doveva suonare molto esotico al tempo? perché prodotto su istanza del generale Charles Poletti, commissario degli approvvigionamenti per le truppe alleate: il primo rosato italiano nasce per soddisfare la sete di giovani ragazzoni americani.

Più testosteronica di così la storia non potrebbe essere.

I muri che cominciano a cadere

Ancora lontani dal promuovere a pari rango i rosati con gli altri vini ( ma, del resto, gli stessi vini bianchi non soffrono un po’ della sindrome da fratello minore rispetto ai rossi?), si stanno però colmando in fretta grandi distanze, grazie alla convergenza negli ultimi anni di diverse forze in campo, che promuovono una rinata dignità di questi vini: dai viticoltori ai distributori, dai divulgatori agli enotecari, fino ai fruitori finali, l’interesse intorno ai rosati sta innegabilmente crescendo (come dimostra la degustazione di stasera, che li vede protagonisti assoluti).

Se l’unica DOCG esclusivamente rosata è la Castel del Monte Bombino nero, esistono però diverse zone e DOC sempre più vocate al rosato: dal Cerasuolo d’Abruzzo DOC, che dal 2010 non vive più all’ombra del Montepulciano d’Abruzzo, ai deliziosi e fini chiaretti del Garda DOC (soprattutto la riva bresciana), e Valtènesi DOC, per cui nutro sincero amore.

Dal Bardolino DOC, il cui consorzio ha svolto negli anni un encomiabile e puntuale lavoro per la valorizzazione e diffusione dei chiaretti, ai rosati di Bolgheri e Salice Salentino, fino ai Lagrein kretzer altoatesini, l’Italia dei rosati non è certo avara di ottimi vini. E stasera ne avremo prova tangibile.

La degustazione

Se è stato finora bello perdersi nei meandri della filosofia enologica in rosa (almeno per chi scrive), è tempo di tornare alla concretezza e dare sostanza fluida alle nostre teorie, concretezza ai pensieri.

Passiamo alla verità del bicchiere, ottimamente illustrata dall’eccellente Martin Rance, che anche stasera non ne sbaglia una, dalla scelta dei vini da sottoporre a un pubblico molto attento, alla decodifica dell’anima di ogni vino.

Partiamo dal Garda orientale, di parte veneta: l’apertura dei giochi è affidata a Giovanna Tantini, ex avvocatessa con la passione per il vino e il sogno uscito dal cassetto di dar vita a un Bardolino di gran carattere: "Con un faticoso lavoro di precisione ho rinnovato i vigneti a guyot e ridotto le rese per cercare di ottenere il massimo da terreni calcarei, pianeggianti e difficili".

Le uve usate per il chiaretto sono le tipiche Corvina, Rondinella e Molinara: vendemmia manuale anticipata, pigiadiraspatura, criomacerazione, vinificazione separata delle uve, assemblate prima del successivo affinamento, sono la cifra dell’estrema cura posta nell’ottenimento di questo Bardolino Chiaretto DOC 2017. Color rosa tenue delle prime peonie d’ aprile, la sua cifra sta nell’eleganza di aromi soffusi di fragolina, piccoli frutti rossi e pompelmo rosa, che virano verso una speziatura tenue ma riconoscibile di chiodo di garofano e cannella.

Freschezza e sapidità date dai terreni morenici, che regalano un finale di bocca netto e pulito.

Travalicare i confini nazionali fino al dipartimento del Var, foce del Rodano, terra (molto bella anche paesaggisticamente) di Bandol AOC, non è un grosso sforzo se la ricompensa consiste nel Bandol AOC 2017 del Domaine la Bastide Blanche.

Vendemmia manuale e uso di tecniche poco interventiste dettate dalla filosofia biodinamica con cui è condotto questo domaine.

Mourvèdre, Grenache e Cinsault combinate nell’armonica proporzione del 40-30-30: pressatura diretta della Mourvèdre, solo successivamente assemblata a Grenache e Cinsault, che subiscono la macerazione pellicolare a freddo. Affinamento che può arrivare ai 10 mesi prima dell’immissione al commercio.

Declinazione tradizionale di un vino di Bandol, rosa tenue di brillante trasparenza, al naso si apre con netti aromi di pesca, albicocca, quota tropicale data dall’ananas. Erbette di macchia mediterranea regalano note balsamiche mentolate e fresche. Morbido e strutturato comincia a farci intuire come anche un rosato può far sul serio e chiudere in bocca con un finale ben scandito sulle note amare di visciola, rabarbaro e caramella mou.

Il vino misterioso

In media stat virtus: locuzione confermata dal vino misterioso, che stasera si colloca proprio nel mezzo della degustazione.

Francese o italiano? francese, di una parte di Francia simile e affine per certi versi a certe regioni italiane. Da vitigno di matrice italianissima. Tutto chiaro, no?

Per niente, infatti complimenti a Paola Mezzatesta che per prima nel pubblico, riconosce i sentori del Nielluccio usato da Yves Leccia per il suo Patrimonio rosé AOC 2017.

Proveniente da famiglia còrsa di viticoltori di lunga data, Yves Leccia non disdegna di seguire comodamente la strada tracciata, compie studi enologici, si insedia nell’azienda di famiglia, dove prosegue il lavoro nel solco della continuità.

Finché Sandrine, sua compagna di vita, scompagina le carte (c’avete fatto caso come spesso sia l’elemento femminile a portare cambiamento e scompiglio?): nasce così nel 2005 una nuova impresa che copre 15 ettari di terreni a matrice scistoso-calcarea, posti ai piedi del Capo Corso e beneficiati dall’influenza marina del vicino Golfo di Saint Florent. Chiaro come il segno distintivo di questo rosato da saignée sia la spiccata sapidità e una gradevole mineralità che regalano la sintesi perfetta fra eleganza e bevibilità.

Color cerasuolo timido, emana con garbo aromi fini di petali di rosa e piccoli frutti rossi, speziatura dolce. Nota balsamica non prorompente di piperna e altre aromatiche che rimandano all’estate.

Il crescendo nella degustazione

Dopo l’eterea piacevolezza di vini marini e sapidi ci spostiamo verso la concretezza più terrosa del Bordeaux Clairet AOC 2017 Château Penin.

Pletorico dirlo, siamo in zona poco vocata per bianchi e rosati, ma questo clairet da Merlot in purezza giustifica bene le 60.000 bottiglie prodotte annualmente.

Rose foncé comme il faut in un clairet, dove si gioca molto sull’estrazione di aromi e corpo, fanno il loro ingresso per la prima volta in questa degustazione i tannini, lievemente percettibili ma presenti. Affinamento di quattro mesi sulle fecce fini per aumentare aromaticità e tipicità.

Profumi caldi di petalo di rosa e frutta rossa matura raccolta in un giorno di sole, speziatura dolce non debordante.

Nota vinosa ben presente ma bilanciata dall’acidità. Buona avvolgenza e persistenza in bocca.

Meno immediato e ruffiano dei precedenti rosati: non a caso si parla di Clairet e non di Rosé, e, per la nota suscettibilità francese quando si tratta delle loro questioni, è bene specificare che il Clairet si distingue proprio per la ricerca di un’estrazione più spinta: semplificando, in modo piuttosto grossolano, rosé uguale freschezza e finezza, clairet, consistenza materica.

Viene da Alezio il Rosato del Salento IGT “Vigna Mazzì” Rosa del Golfo 2016, Negroamaro, da viti ad alberello di 55 anni d’età, che la fa da padrone con quota del 90% e Malvasia nera leccese per la restante parte.

Vino che cerca una peculiare identità già dal metodo di vinificazione, improntato sulla falsariga della tradizionale a lacrima, che prevedeva l’uva chiusa in grossi sacchi: dal succo che via via sgocciolava si otteneva il rosato.

Anche nell’affinamento si cerca un approccio distintivo (scelta deliberata o strizzata d’occhio al mercato americano verso cui quest’azienda è abbastanza orientata?): 10 mesi in botti di ciliegio e castagno, è il primo rosato salentino a “sperimentare” il legno.

Rosa intenso con sfumature ramate, denuncia subito al naso la speziatura spinta di vaniglia data dal legno, forse non dosato con attenzione: tannini verdi dall’attrito non piacevolissimo all’ingresso in bocca. Il tempo gli sarà galantuomo. Sentori pieni e rotondi di frutta rossa matura e rabarbaro. Buon corpo e sapidità, persistente: un po’ mortificato dal fatto che, forse, ha bisogno di qualche tempo di riposo in più, per smorzare l’arroganza del legno.

C’è sempre il momento nelle degustazioni FISAR in cui arriva lui, “quel” vino che mette d’accordo tutti, ci rende più disciplinati e taciturni del solito perché concentrati e impegnati a “sentirlo” con tutti i sensi.

Eccolo, è arrivato: il Palette Rosè AOC 2017 di Château Simone col suo splendido colore rosa antico dai riflessi ramati intensi conquista già allo sguardo.

Situato a quattro Km da Aix-en-Provence, provenzale fino all’osso, Château Simone è di proprietà della stessa famiglia dal 1830. Le vieilles vignes hanno età media di 50 anni.

Azienda agricola a conduzione naturale, senza sentire la necessità di certificazioni, fa assemblaggio di mosti, fermentazione con lieviti indigeni e affinamento sulle fecce fini. Distinzione, finezza e blasone che si ritrovano in questo rosé de saignée da uve Grenache, Mourvèdre e Cinsault, più una quota del 20% variamente ripartita a seconda delle annate fra Syrah, Castet, Carignan, Manosquin.

L’intensità al naso non esplosiva è compensata dall’estrema finezza: ampio ventaglio di aromi, che spaziano dalla delicata nota floreale ai piccoli frutti di bosco, ribes, cassis. Speziatura soffusa e piacevole data dal legno perfettamente integrato, note mentolate di macchia mediterranea. Salmastro e nervoso, ha un’acidità che spinge al sorso consecutivo senza soluzione di continuità, in un crescendo implacabile fino ad esaurimento bottiglia.

Fare meglio di così era già arduo di suo, ma l’impresa tentata dal Cerasuolo d'Abruzzo Valentini DOC 2016, viene frustrata sul nascere, a causa di un’evidente riduzione che inficerà in una certa misura la nostra esperienza degustativa.

Cantina storica di Loreto Aprutino, vanto e portabandiera della viticoltura abruzzese, Valentini lavora da sempre secondo una personale impronta produttiva che non ammette deroghe: nessun controllo delle temperature in fermentazione, che avviene in grandi tini di rovere, uso di lieviti indigeni, nessuna filtrazione, successivo affinamento di 12 mesi più riposo in bottiglia fino a un paio d’anni.

Se il vino non soddisfa i criteri gustativi di chi lo produce, semplicemente, non viene messo in commercio.

L’annata 2014 del Cerasuolo è stata inserita nellaclassifica dei 50 Migliori Vini del Mondo 2016. Si può opinare o meno sulla scelta fatta, ma non ci si può esimere dal rallegrarsi per il traguardo raggiunto da un rosato, che per tipologia e scarsa tradizione italiana ha certamente dovuto dimostrare di avere una marcia in più per ottenere tale e legittimo riconoscimento.

Montepulciano 100% da vigne allevate a pergola abruzzese, color cerasa intenso, evidente alla vista la scelta di non filtrare.

Il naso, purtroppo non si esprime al meglio, aprendosi in modo austero a sentori di lampone, sottobosco, spezie dolci. Nota minerale ben presente. Ottima struttura e persistenza in bocca, si intuisce il punto di forza di questo rosato, che non teme l’invecchiamento, e, anzi, ne trarrà certo giovamento.

L’arrivederci a domani…

La serata si conclude e ha il sapore dell’ultimo giorno di scuola: ci si saluta in modo leggero e goliardico, sapendo che ci ritroveremo tutti in un prossimo autunno, che sentiamo già dietro l’angolo e sarà foriero di tante, interessanti, iniziative e novità.

Anche quest’articolo volge al termine, e non scordo di avere un debito di conoscenza (e riconoscenza) da saldare verso chi ha avuto la bonomia e la pazienza di arrivare a leggere fino qua.

Chi vince l’ipotetica finale Italia-Francia sul filo dei rosati?.

Il pubblico, salomonicamente, decreta migliori rispettivamente Palette AOC e Bardolino Chiaretto DOC: in realtà con un ampio scarto di numero di voti fra primo e secondo.

La Francia dimostra, innegabilmente, una sapienza produttiva che proviene da lunga e ponderata esperienza in fatto di rosati, da cui l’Italia non può che trarre esempio e ispirazione: “Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo”, e non sarò certo io a sconfessare l’ammonimento riportato nel Vangelo secondo Matteo.

Ma l’Italia dei rosati e chiaretti incalza, e, ci sarà da scommettere, grazie al vento favorevole arrivato a spirare intorno a questa tipologia di vini, avrà sempre più spazio e modo per dire la sua, nell’ambito di una sana competizione che non può che giovare ad entrambe le nazioni.

Intanto, è notizia fresca di oggi, la Francia è arrivata in finale ai Mondiali: se la batterà con l’Inghilterra o con la Croazia.

Vedremo, ma sappiamo tutti che se in questa maledetta finale se la fosse dovuta vedere con noi, il gioco sarebbe stato molto più duro (e bello).

Non siamo sempre i primi, ma certamente i migliori quando si tratta di dare filo da torcere ai nostri amatissimi e combattuti cugini transalpini.

Valentina Pizzino
Valentina Pizzino

Nata a Firenze da una famiglia di astemi, non ha mai dubitato che nelle sue vene scorresse Chianti Classico. Lavora fra i libri, ma gli scaffali che preferisce sono quelli delle enoteche. Il suo centro di gravità permanente è sempre ruotato attorno a una bottiglia.

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