20 novembre 2019

Quando la necessità diventa virtù: il whisky torbato

Quando la necessità diventa virtù: il whisky torbato

Avviso ai naviganti e ai navigati delle degustazioni FISAR e degli articoli di questo spazio: di cosa sia un whisky scozzese, delle origini storiche e dei metodi di produzione si è già ampiamente argomentato. Un riassunto valido lo trovate qui e qui.

Quello su cui ci concentreremo stasera, è un aspetto caratterizzante di un certo stile del distillato, ad oggi molto apprezzato anche dai palati italiani: la torbatura, processo produttivo che conferisce aromi e sapori tipici d’affumicatura, più o meno spinta.

Ma cos’è la torba? 

Semplificando efficacemente, la si può definire come lo stato embrionale del carbone, un deposito che si forma per degradazione di resti vegetali, muschi, erba, foglie, eriche ma anche piccoli insetti, che in suoli acquitrinosi, non riuscendo a decomporsi completamente si compattano, dando vita a un materiale vegetale poroso e molto umido, composto dal 90% da acqua e per la restante parte da lignina, carboidrati e fenoli, i responsabili degli aromi ceduti in fase di combustione.

Il processo di formazione della torba è naturalmente lento, si calcola che per la formazione di un metro di torba occorrano 1000 anni: la si estrae durante il periodo estivo nei Bogs, letteralmente “paludi, pantani”, dove l’attività estrattiva avveniva un tempo a mano; stivaloni in gomma e pala, ci si calava in buche profonde come tombe da cui si prelevavano grossi mattoni di torba successivamente messi ad essiccare al sole (quando e se ce n’era, siamo pur sempre in Scozia...).

Nell’Ottocento la torba rappresenta la principale fonte per  alimentare i forni in cui avviene l’essiccazione dell’orzo che, maltato, darà vita al futuro whisky: dalla sua combustione si sprigiona un fumo denso e aromaticamente connotato che trasferisce al chicco sentori unici. 

Va da sé che più lento e prolungato sarà il processo d’essiccazione, più aromi verranno trasferiti: da qualche ora a più giorni, il tempo d’esposizione al fumo determinerà il grado di torbatura del distillato finale.

Come da titolo, di necessità virtù: si usa la torba perché il carbone, non disponibile in loco, è anche di difficile importazione, data la difficoltà di collegamenti terrestri; sarà infatti lo sviluppo della rete ferroviaria, iniziato gradualmente dall’Ottocento in poi, a decretare la sostituzione della torba col carbone, di più facile impiego ed economicamente vantaggioso.

Dalla zona a sud delle Lowlands, quella più facilmente raggiungibile dalle rotaie, si dispiegheranno i neonati collegamenti, su su fino a coprire tutto lo Speyside.

La concomitante entrata in campo delle grandi malterie industriali completa l’opera: l’orzo viene maltato in modo massivo, riducendo tempi e costi. 

L’uso della torba sarà sempre più ridimensionato; molte distillerie dismettono i propri malting floor, acquistando orzo già maltato (più o meno torbato): apripista, di nuovo, la zona delle Lowlands, dove si producono Blended di non sempre alte aspettative e pretese qualitative.

Discorso diverso per le isole, Islay, Orcadi e Campbeltown rimaste fedeli all’utilizzo della torba per una serie di circostanze storiche, filosofiche e pratiche il cui intrecciarsi ha generato nel tempo uno stile del distillato peculiare e a tutt’oggi distinguibile rispetto agli altri delle principali zone produttive scozzesi.

Innanzitutto l’abbondanza dei Bogs, ricchi e numerosi che rendono una gran quantità di torba dalle ottime componenti aromatiche.

L’isolamento rispetto alla terraferma ha altresì avuto un ruolo importante: la strada d’acciaio non arriva fin qui.

Ancora oggi, trasportare il carbone da Glasgow a Islay, l’isola più a ovest, non è impresa semplice perché consta di tre ore di viaggio su strada più due di nave: facile immaginare come nell’Ottocento la questione di importare carbone non si ponesse nemmeno.

Solo negli anni ‘80 del Novecento viene poi creata una malteria industriale sulle isole,  a Port Ellen, ad opera del colosso Diageo, che tuttora rifornisce le distillerie isolane che non maltano in proprio.

La torba, storicamente, è dunque, in prima istanza, necessità nelle isole: si trasformerà in cultura e gusto esclusivo nella seconda metà del Novecento, quando vengono coniati i primi Single malt, distillati in cui l’uso della torba non è più dettato da contingenze economiche ma dalla ricerca di un gusto particolare e fortemente connotato.

La torbatura diventa prestigioso connotato d’appartenenza, tradizione di un dato stile.

Alcune distillerie di Islay e delle Orcadi hanno torbiere di proprietà (vedi Laphroaig), anche se la realtà odierna della maggior parte delle distillerie, prevede l’acquisto di torba, o, addirittura, di orzo già maltato, dall’estero (America, Nord Europa, Paesi Baltici).

Non avrai altra torba…

Si è compiuto finora un atto di grossolanità, in effetti: è molto riduttivo parlare di torba. Più corretto il plurale: le torbe.

Come intuibile, originanadosi da decomposizione di materia organica in dato suolo e luogo, esposta a un particolare microclima, la torba varierà composizione e carica aromatica a seconda del luogo di genesi.

In sintesi, provenienze diverse, torbe diverse.

Ad Islay si riscontra una “torba marina”, ricca di fenoli e vanillina, che rilascia ampie note salmastre e iodate. Affine, per caratteristiche, quella estratta a Campbeltown.

Nelle Highlands, la presenza della Myrica gale, pianta palustre  di cui si è già parlato nelle precedenti puntate, conferisce connotazioni aromatiche dolci.

Nelle Orcadi si origina una torba che rappresenta un valido compromesso fra la salinità pungente di Islay e la rotonda dolcezza delle Highlands.

La giusta misura

Difficile trovarla, qualsiasi sia l’ambito dell’umana azione, non esclusa nemmeno la torbatura nel distillato.

Se la questione può essere agevolmente liquidata dalla reporter, delegando baracca e burattini al gusto personale, è anche grazie all’unità di misura  impiegata per stabilire quanta torba ci sia in effetti nel glencairn: ppm, ovvero, la misura della presenza dei fenoli trasmessi dalla torba in parti per milione.

In soldoni: inferiore ai 5 ppm, malto leggermente torbato, fra i 5 e i 15 ppm, media torbatura, dai 15 ai 55 ppm torbatura spiccata.

La predilezione per i torbati passa anche dai numeri: esistono, e sono commercializzati, anche distillati con torbature superiori alle 100 ppm, come l’ Ardbeg Supernova Committed Release (100 ppm) o il temibile Bruichladdich Octomore Masterclass versione 08.1 (167 ppm !). Se qualcuno dei lettori avesse modo di assaggiarlo, e sopravvivesse all’esperienza il tempo sufficiente a raccontarla, ci faccia sapere: sono sempre interessanti e attuali le Cronache marziane…

La degustazione

Preambolo ampio, larghe aspettative, il bicchiere ha però sempre la prerogativa dell’ultima parola. E quando la mano che, almeno idealmente, l’ha riempito è quella di Leonardo Finetti, la garanzia che si trovi perfetta aderenza fra quanto enunciato e quanto degustato è sottoscritta e assicurata.

Menzione anche alla “mano” che il glencairn l’ha riempito de facto, Martin Rance: la teoria senza il gesto resta materia morta!

Partiamo dalla comfort zone di un whisky dalla torbatura abbordabile, che proviene da una delle zone che vede la maggior concentrazione di distillerie attive, rinomata per lo stile elegante e limpido dei distillati ivi prodotti: lo Speyside.

Il Benromach 2008 Single Cask, prodotto dall’omonima distilleria, attiva dal 1898 e passata in mano all’imbottigliatore Gordon & MacPhail nel 1993, è un distillato che persegue la ricerca di un gusto “tradizionale”.

Single cask in edizione limitata (solo 235 le bottiglie partorite dalla botte), affinato in botte ex-Bourbon di primo passaggio, indi radicalmente imbottigliato nel 2017 a 60,3%, senza colorazione né filtraggio, si presenta al naso con una decisa botta eterea, cui segue la percezione di un’affumicatura discreta nei toni, che rimanda alla cenere di un camino spento in una tarda serata invernale. Il centro bocca vanigliato cede il passo a un finale giocato su note amaricanti.

L’aggiunta successiva di acqua in dosi omeopatiche favorisce l’apertura su sentori più dolci, dove l’uso della botte ex-Bourbon dice la sua: frutta secca, speziatura dolce, the biondo. La nota vegetale smorza la torbatura, conferendogli un profilo più sottile ed elegante.

Zona di antichi fasti, che sta gradualmente rialzandosi grazie alle poche, ma qualitativamente buone distillerie che ospita (Springbank -Longrow, Hazelburn-, Glen Scotia e la nuova nata Glengyle-Kilkerran), Campbeltown è stasera rappresentata dal Glen Scotia 2003 Rum Cask Finish, distillato di media torbatura  che ricalca le orme di uno stile classico e scevro da orpelli.

Elaborato il processo produttivo, a rafforzamento di una certa complessità gustolfattiva finale: all’affinamento in botti ex-Bourbon di secondo e terzo passaggio segue un finish di otto mesi in botti ex rum Demerara, che ci fanno pregustare una teoria infinita di suadenti note dolci.

Imbottigliato puro a 51,3%, non vede né filtraggio né colorazione. 

Chiaro fin da subito l’intento del relatore di presentare in questa sessione distillati lasciati il più possibile integri, con nessuna, spesso inutile, manipolazione accessoria.

L’affumicatura è presente, ma connotata da interessanti note aromatiche, saline e minerali.

Si apre alla complessità attraverso note scure di zucchero moscovado, melassa, legni profumati, sandalo. Le erbe mediterrannee cedono ben presto il passo alla speziatura, importante ma non ridondante. Si spinge oltre, fino al tabacco e al cuoio, conservando integrità ed eleganza.

Dinamica di bocca armonica, senza spigolature.

La successiva aggiunta d’acqua smorzerà l’affumicatura a favore dei sentori più dolci di burro di cacao, spezie, the.

Restiamo in zona: con la degustazione del Longrow 18 anni Limited Edition, chi ha partecipato alle precedenti serate dedicate al whisky scozzese, può vantare di aver degustato i distillati di tutte e tre le distillerie presenti a Campbeltown (altra goccia che va a confluire nel mare originato dalla nostra sete di conoscenza).

Di proprietà di Springbank, la linea dei distillati Longrow, è quella che nella filosofia aziendale occupa lo spazio più ampio dedicato ai torbati.

Di nicchia e pregiata la produzione: del 18 anni vengono prodotte solo 4800 bottiglie annuali, con torbatura che vira sull’hard delle 55 ppm.

Affinamento misto, in botti ex-Sherry per il 75% ed ex-Bourbon per la restante parte. Imbottigliato a 46%, non filtrato, natural color.

Torba che si presenta in vesti diverse, meno smoke e più iodata.

Deliziosi sentori di frutta caramellata e  scorza d’arancia candita, toffee, mandorla dolce. 

Centro bocca leggermente astringente, si chiude su note confettate e di burro di cacao.

Integrazione ottimale della torba.

La successiva aggiunta di qualche goccia d’acqua sprigiona una nota agrumata fresca di ginger e  fiori di zagara e bergamotto. La parziale perdita di potenza al naso è compensata da una delicata freschezza che fa emergere la pienezza olfattiva che sta alla base di questo distillato, che, non a caso, risulterà fra i più graditi all’uditorio.


Impossibile “sedersi” davanti a distillati di tal genere, ma, anche potesse accadere, arriva l’eccitazione che accompagna ogni volta la presentazione del campione misterioso, a ridestare curiosità e attenzione.

Come già più volte rimarcato, dire che la pazienza mi difetta è un eufemismo, e dunque, vuoto subito il sacco: siamo nella zona più iconica delle isole, Islay, in una delle distillerie che, a torto o ragione, lo stabilisca chi legge, ha più catalizzato intorno a sé negli ultimi anni gli interessi di esperti, appassionati, ed addetti al settore, annoverando dalla propria un volume di vendite secondo solo a Laphroaig (forse anche grazie al fatto che sia di proprietà del colosso Diageo?): Lagavulin, in questa sede rappresentata dall’edizione limitata del Lagavulin 9 y.o. Game of Thrones.

Non entro nel merito della famosa serie a cui è stata dedicata un’ esclusiva collezione di otto single malt (non l’ho mai seguita, e, a naso, mi sa che la circostanza non versa a mio favore), ma del distillato a cui mutua il nome: insolito per la distilleria l’affinamento prevalente in botti ex-Bourbon, riprova del fatto che si sia voluta perseguire una diversità stilistica riservata ad una linea particolare. Imbottigliato con filtraggio a freddo e lieve aggiunta di caramello, sarà il campione più manipolato (della degustazione) dal master blender del caso: un po’ ce lo aspettiamo, data l’ampiezza della produzione, più commercialmente vocata ed espansa delle altre realtà presenti stasera in degustazione.

L’irruenza della gioventù del distillato irrompe ex abrupto al naso, anche se l’uso della botte ex-Bourbon disciplina in certa misura la situazione.

Torba piena e terrosa che restituisce un’affumicatura spinta sia al naso che in bocca.

Potente nota di carbonella, aromi secchi di erica e brughiera, più erba che frutto, a mortificazione delle timide ed esili note dolci di banana  e mela che si aprono qua e là qualche piccolo varco in una situazione olfattivamente fin troppo muscolosa.

Nemmeno l’acqua riuscirà a domare la prepotente nota fumé.

Lieve acetica che però poco compromette l’integrità della degustazione.

Un distillato giocato sui toni alti più che sulle parole sussurrate in punta di fioretto a cui i precedenti whisky ci avevano avvezzato.

Restiamo stabili ad Islay per una conclusione della serata in (grande) stile torbato.

Di proprietà dell’imbottigliatore indipendente Elixir Distillers, che ha fondato il marchio nel 2009, Port Askaig mutua il nome dall’omonima località posta nella zona nord-orientale dell’isola di Islay, esattamente di fronte a Jura. Il whisky viene acquistato da Caol Ila e successivamente imbottigliato: il Port Askaig 10 anni è un single malt che celebra il decimo anniversario di fondazione. Cask strength imbottigliato a 55,85%, non filtrato né colorato, vede un affinamento composito, affidato a botti ex-Bourbon sia di primo passaggio che più vetuste, sia a botti ex-Sherry.

Aromi fruttati e agrumati freschi, zenzero, molto elegante: a volergli trovare una pecca, più al naso che in bocca, dove il distillato entra verticale e domina prepotente.

Presente e decisa la nota affumicata, che si smorza all’aggiunta d’acqua, liberando note mielose ed erbacee, il fiore della camomilla, le erbe di macchia mediterranea.

Stessa zona, perfetto contraltare: ha bisogno di poche presentazioni la notissima distilleria posta sulla costa meridionale dell'isola di Islay, ad oggi di proprietà del marchio del lusso LVMH, che riveste ormai da qualche tempo il ruolo di asso pigliatutto anche nel mondo del vino e degli spiriti d’alto rango. Ardbeg, fondata nel 1815, ha conosciuto periodi di alterne fortune, fino ad arrivare alle glorie odierne: in fase di attuale ampliamento, con l’aggiunta di due nuovi alambicchi e 6 washback, arriverà a produrre fino a 2,4 milioni di litri annuali di whisky, di qualità mediamente buona, con picchi d’eccellenza.

L’ Ardbeg Uigeadail - Old Presentation, affinato per la maggior parte in botti ex-Sherry, ed in misura minore in ex-Bourbon di primo e secondo passaggio, cask strength imbottigliato a 54,2%, non filtrato, natural color, si presenta con un grado di 55 ppm. Aldilà della quantità, la qualità della torba, pungente al naso, salmastra più che salina, caratterizzante nella migliore delle accezioni.

Opulento, rotondo in bocca, dove il fumo entra per espandersi e colonizzare i recettori retronasali.

L’acqua mitiga e spinge in avanti, ma di poco, qualche timido accenno più dolce e fruttato, ma, per intendersi, non va in quella direzione la storia che si vuol sentir raccontata da un siffatto distillato:  in questo glencairn si cerca la voce della torba e della bruma, l’austerità del clima scozzese che si coniuga in una quinta fase meteorologica, oltre le quattro canoniche. Si dice che la Scozia ha quattro stagioni: primavera, estate, autunno e inverno. Tuttavia, viste le mutevoli condizioni climatiche, non è raro vivere tutte e quattro le stagioni in un unico giorno…

Cosa rara, invece, vivere in un’ unica sera tutte le sfumature, dalle più accennate a quelle più scure e decise, di una materia impastata della stessa materia della terra da cui proviene: umile torba, il cui fumo combusto regala note uniche e  non altrimenti riproducibili ad alcuni dei whisky più amati ed emblematici dei nostri tempi.

Chiusura letteraria, dove la scrittrice contemporanea Muriel Barbery, nel suo bel libro “Estasi culinarie” descrive così il primo approccio con un whisky:

“Immersi cauto le labbra nel magma torboso e… che reazione violenta! Subito esplode in bocca una deflagrazione di peperoncino ed elementi in tempesta: gli organi cessano di esistere, niente più palato né guance né mucose, soltanto la furiosa sensazione che dentro di noi avvenga uno sconvolgimento tellurico. Rapito, lasciai che il primo sorso mi indugiasse un attimo sulla lingua, mentre ondulazioni concentriche continuarono a sedurla ancora un bel po’. È il primo modo di bere il whisky: assaporarlo con ferocia, per fiutarne il gusto aspro e inoppugnabile”.

Reazione violenta, sconvolgimento tellurico, ferocia...dalla scelta delle parole traspare in  modo netto e inequivocabile come questo distillato sia materia viva che reca in sé una selvaticità che trova la migliore espressione proprio nella fumosa combustione della torba: c’è un carattere non domo nell’origine e utilizzo di questa che mai nessun orzo già maltato con mezzi industriali sarà in grado di riprodurre. Almeno per le menti, i cuori e i palati dei degustatori più passionali: e noi non lo siamo, forse?.

Valentina Pizzino
Valentina Pizzino

Nata a Firenze da una famiglia di astemi, non ha mai dubitato che nelle sue vene scorresse Chianti Classico. Lavora fra i libri, ma gli scaffali che preferisce sono quelli delle enoteche. Il suo centro di gravità permanente è sempre ruotato attorno a una bottiglia.

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