27 dicembre 2017

Château Musar, alle origini della viticoltura

Château Musar, alle origini della viticoltura

La storia di Château Musar parte da molto lontano, e vede intersecarsi diversi piani spazio-temporali.

Potremmo farla iniziare nel 1930, quando il libanese  Gaston Hochar, di ritorno dai suoi viaggi nella zona di Bordeaux, decide di dare vita a un’azienda vinicola: la scelta di piantare vitigni quali Cabernet Sauvignon, Carignan, Grenache e Cinsault è logica conseguenza dell’esperienza francese.

L’amicizia successiva con Ronald Barton di Château Léoville Barton (di stanza in Libano durante la seconda guerra mondiale) è stata poi ulteriore e preziosa fonte d’ispirazione.

Ma inizia anche qualche tempo prima, nella zona in cui Gaston decide di piantare le barbatelle: esattamente, giorno più giorno meno, 6000 anni fa.

La Valle del Bekaa è luogo in cui è attestata la nascita ufficiale della viticoltura, grazie al ritrovamento di testimonianze scritte degli antichi Egizi.

E’ in realtà un altopiano (ha quote di altitudine variabili fra i 900 e i 1200 metri), protetto dai monti, posto ad est del Libano: il clima continentale che determina importanti escursioni termiche sia stagionali che giornaliere e la scarsità di precipitazioni in combinazione con suoli ricchi di calcare, ghiaia e pietre, lo rendono un territorio particolarmente adatto alla viticoltura di qualità.

E’ qui che insieme agli internazionali francesi a bacca rossa vengono piantati Viognier, Vermentino e Chardonnay, a conferma dell’imprinting francese del produttore, ma anche i due autoctoni Obaideh e Merwah, che lo stesso Hochar ha sempre sostenuto essere gli antenati degli odierni Chardonnay e Semillon.

La storia prosegue su saldi binari (i vini di Gaston sono molto apprezzati anche dagli alti ufficiali dell’esercito) fino al 1959, anno in cui, il figlio Serge, ingegnere prestato alla passione per il vino, si laurea in enologia a Bordeaux, sotto l’egida di Emile Peynaud, torna a casa  e rimescola tutte le carte.

Volta le spalle a gran parte degli insegnamento appresi, rifiuta le convenzioni fissate dei lavori in vigna e in cantina, e dà vita ad un nuovo inizio: non vuole fare il vino “comme il faut”, ma secondo le proprie convinzioni.

Straccia il calendario dei trattamenti in campo e abbraccia la filosofia del non interventismo: il compito dell’uomo è quello di preservare la salubrità del suolo e della vigna, favorendo una naturale rigenerazione di entrambi. Abbandona la chimica, mette in atto solo le pratiche necessarie per accompagnare il vino nella propria formazione, senza forzare la mano, senza usare sostanze correttive o migliorative.

Nel 1959, in tempi ben lontani dalla formulazione di concetti come biologico e biodinamico,  Serge applica a tutti i 180 ettari di proprietà la stessa filosofia: non fa uso di diserbanti in vigna, non addiziona i mosti con lieviti selezionati, non opera alcun controllo della temperatura, al fine di ottenere vini peculiari e diversi l’uno dall’altro, portatori di differenze e a volte imperfezioni ma fortemente connotati, che non ricercano l’asettica perfezione a discapito dell’espressività.

Ad oggi, non a caso, tutti i vini di Château Musar sono importati in Italia da “Triple A” (artigiani, agricoltori, artisti), portabandiera dei produttori naturali.

A Serge, scomparso nel 2014, sono succeduti i figli che portano avanti con immutata convinzione l’azienda, nota soprattutto per il rosso a base  Cabernet Sauvignon, Carignan e Cinsault.

Stasera però, grazie a Livio Del Chiaro e Bianca Ciatti conosceremo un volto diverso della storica cantina, che si esprime nell’elaborazione degli autoctoni a bacca bianca Obaideh e Merwah attraverso lo Château Musar white, di cui faremo una verticale delle annate 2008, 2006, 2004, 1995, precedute dal Musar Jeune 2016, un bianco da Viognier 35%, Vermentino 35% e Chardonnay 30%, che rappresenta il prodotto base dell’azienda.

Una premessa: lo Château Musar white proviene da vigneti la cui età media è attestata sui 70 anni. Fa fermentazione alcolica e malolattica spontanea, parte in barriques di rovere francese (per il 20% nuove) e parte in contenitori di acciaio.  Sosta sulle fecce fini per 6 mesi in barriques di rovere francese (Nevers), a cui segue l’assemblaggio in tini di acciaio e ulteriore affinamento di 2 mesi. Completa la maturazione in bottiglia, dove resta per almeno 4 anni, se non di più, prima dell’immissione sul mercato: l’annata attualmente in commercio è la 2008.

Da ciò si deduce che l’approccio migliore per capire questo vino è quello di considerarlo per come è nato nella mente di chi lo produce, ovvero un bianco da invecchiamento, in cui all’immediata piacevolezza del varietale e del frutto si predilige la complessità di aromi e speziature e il corpo importante.

La Degustazione

Dopo l’esaustiva introduzione di Livio e Bianca, passiamo alla degustazione vera e propria, in cui i due ottimi relatori si intercambiano alla guida di un viaggio che ci porterà lontano, fino alla Valle del Bekaa.

Il Musar Jeune 2016 apre le danze con impeccabile eleganza: il color paglierino scuro è dovuto al sole che implacabile ha martoriato le uve durante un luglio caldissimo. Il naso coglie subito la mineralità (una caratteristica che ritornerà in tutti i vini della serata) e una nota tenue di muschio bianco, ma anche frutta matura e agrumato. In bocca è sapido, lievemente astringente, fresco. Scaldandosi un pò gli aromi evolvono verso il the verde e una netta nota mentolata, la retrolfattiva capta accenni di pietra focaia.

Lo Château Musar white 2008 è figlio di un’annata particolare, in quanto una primavera ed un’estate estremamente siccitose hanno impedito l’attecchimento di malattie fungine  (comunque rare a tali altitudini e con questi climi): è stato  dunque  possibile evitare ogni trattamento  a base di solfato di rame in vigna. A differenza delle uve rosse, che hanno sofferto il clima torrido dell’estate, le bianche hanno mantenuto la caratteristica freschezza.

Di colore dorato chiaro, rivela subito spiccati aromi di incenso, gesso, pietra focaia. Speziatura fragrante di zafferano e curry. In bocca è pieno, corposo, si avverte la lieve nota tannica data dalla barrique.

Lo Château Musar white 2006 rappresenta, a detta degli esperti e confermato a furor di popolo, la migliore espressione dei vini degustati stasera. L’andamento climatico annuale piuttosto nella norma ha permesso la maturazione ottimale di tutte le uve, che sono state vendemmiate in una tempistica perfetta. Lo splendido colore giallo dorato intenso presenta un vino che si apre al naso in una sequenza aromatica perfetta: fiori dolci di ginestra e tiglio scaldati al sole di un pomeriggio d’estate, mela golden matura, scorza d’arancia appassita, lasciano il passo alla speziatura intensa e all’incenso. Pieno in  bocca, dove si manifesta subito la nota salmastra, il tannino è presente ma non invasivo, ottima spalla acida.

Il 2004 ha portato problematiche nella maturazione delle uve: le varietà vendemmiate prima hanno dato vini più fruttati e leggeri. Fortunatamente Obaideh e Merwah, raccolti sempre in ottobre, hanno beneficiato di una tardiva ondata di caldo che li ha portati su valori di grado zuccherino e acidità nella norma. Il colore dorato dello Château Musar white 2004 è pieno, ma meno intenso di quello dell’annata 2006. Predominano al naso note minerali e dolci, la ginestra, l’albicocca e il dattero lievemente passiti, il miele biondo.

In bocca entra morbido e rotondo, grasso, ma mantiene un’ottima acidità.

Pare incredibile dirlo a proposito di vini bianchi, ma 2008, 2006 e 2004 sono annate pronte da bere ma ancora fresche: possono evolvere ulteriormente regalando nuove sensazioni nel tempo.

Passiamo alla maturità di questo vino, espressa dall’annata 1995, che si annuncia agli occhi col colore giallo dell’ambra e al naso con un sentore poco piacevole di acetaldeide, che comunque svanirà nei venti minuti successivi.

Frutto di un’annata difficile, in cui maggio e giugno sono stati flagellati da piogge e grandinate che hanno portato alla perdita di molti fiori: da qui la produzione ridotta del 30% rispetto alla norma, ma costante e anzi accresciuta nella qualità.

Gli aromi che si fanno largo sotto la coltre invasiva dell’acetaldeide richiamano alla mente la mela cotta e la frutta secca, la noce, il miele scuro di castagno, una speziatura pungente ma dolce di cannella e cardamomo. La retronasale evidenzia note casearie non piacevolissime, ma in forte attenuazione col passare del tempo. Un vino che dopo 22 anni passati in bottiglia ha il sacrosanto diritto di respirare e distendersi nel bicchiere per essere apprezzato al meglio.

Il Vino misterioso

C’è sempre nelle degustazioni FISAR. E’ vestito con una deliziosa calzamaglia nera e il suo scopo è quello di solleticare la curiosità di noi morbosi enofili, riuscendoci immancabilmente.

Quando viene versato nei bicchieri dai valenti sommelier addetti al servizio la tensione dell’attesa raggiunge il suo acme: cosa mai potrà essere quel vino color ambra  carico, i cui aromi richiamano con un automatismo istantaneo quanto degustato finora?

Non è un orange wine, non è un marsala, è la quadratura del cerchio, la chiusura logica e armonica del percorso fatto stasera.

Lo Château Musar white 1991, è l’annata più vecchia reperibile in commercio, e per molti versi la più sorprendente. Meno calante del 1995, non ha sentori fastidiosi di volatile e al sorso è ancora incredibilmente fresco. Il naso è dominato dalla frutta secca, noce, gheriglio e mallo, nota di sottobosco non invasiva. Speziatura intensa, note finali di torba. Un anziano gentleman pieno di fascino e ancora vitale.

La serata volge al termine: forse nessuno di noi si aspettava di conoscere vini di tale spessore, eleganza, complessità e longevità provenienti da una terra come il Libano, dove, ahimé, la tutela e promozione del settore vitivinicolo sono trascurate da un governo che teme di urtare la sensibilità di certe posizioni religiose avverse al consumo di alcool.

Eppure, penso ripercorrendo mentalmente la verticale di questa sera,  questi vini sono l’espressione esatta non solo del terroir da cui provengono, ma del Libano stesso, punto d’incontro fra Oriente e Occidente, patria di storie e sensibilità diverse: espressione di lunga tradizione, ma moderni nella concezione e nell’elaborazione, complessi, ricchi di sfaccettature, contraddittori ma affascinanti, o, meglio ancora, affascinanti nelle proprie contraddizioni.

Valentina Pizzino
Valentina Pizzino

Nata a Firenze da una famiglia di astemi, non ha mai dubitato che nelle sue vene scorresse Chianti Classico. Lavora fra i libri, ma gli scaffali che preferisce sono quelli delle enoteche. Il suo centro di gravità permanente è sempre ruotato attorno a una bottiglia.

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