21 febbraio 2019

Quello che conta davvero: alla scoperta dell’oro giallo-verde

Quello che conta davvero: alla scoperta dell’oro giallo-verde

Da una parte gioca il fatto che, di assaggio in assaggio, ci prendi gusto al gioco della degustazione. Capisci che l’analisi sensoriale critica che di giorno in giorno applichi a un bicchiere di vino, si può estendere, con modalità diverse, ma intenti affini, ad altri prodotti.

E ti si spalanca davanti un mondo di possibilità, se sei un bulimico compulsivo di nuove conoscenze enogastronomiche.

Dall’altra la debolezza tutta umana di avere fisse, predilezioni e trip che nel mio caso si concentrano sul vino, ma non tralasciano un prodotto iconico della cultura di matrice mediterranea da cui proveniamo: l’olio. Che a dire olio non si dice nulla. Correggo il tiro: l’olio extra vergine d’oliva. Tradotto felicemente da chi ha ideato questa serata di degustazione insolita, l’oro giallo-verde.

La preparatissima dott.ssa Serena Trapani (analista del controllo qualità presso un’ importante azienda che opera nel settore olivicolo, nonché membro ANAPOO, associazione che, partendo da basi scientifiche, promuove e tutela la cultura dell’olio), ci accompagnerà, con lucida competenza e ottima comunicativa, nel percorso degustativo di stasera.

Assaggeremo oli di piccole e accurate realtà artigianali, dalla raccolta 2018, ottenuti da olive allevate e frante in Italia, ma di provenienza regionale e cultivar diverse, tutti monovarietali, ricavati, cioè da un’unica varietà di olive, fortemente rappresentativa della zona di produzione in oggetto.

E dato che la conditio sine qua non per riconoscere un buon prodotto è quella di conoscere, prima e altrettanto bene, il suo opposto, ci verrà sottoposto anche un olio reperibile nella grande distribuzione, e un olio palesemente difettato.

Accenni di una storia millenaria

La serata, giustamente, scorre su binari improntati alla scientificità, ma, per il saggio detto che chi nasce quadrato non muore tondo, non posso rinunciare a dare un cornice storica al nostro oro verde.

La coltura dell’olivo ha origini antichissime: siamo in Grecia, intorno al VII sec. a.C. quando tutto ha più o meno inizio. Ippocrate, un paio di secoli più tardi, ne raccomanda l’uso come lenitivo sulle ferite, gli atleti se ne cospargono il corpo per esaltarne vigore e bellezza, già viene usato sia a scopo nutritivo che per alimentare le lampade.

Ѐ proprio quest’ultimo utilizzo, che a prima vista può apparire marginale, a conferire da subito all’olio d’oliva una certa aura di misticità: essendo considerata la luce simbolo di divinità, l’ulivo diviene l’albero sacro alla dea Atena, protettrice della sapienza, delle arti e della guerra.

Per ragioni analoghe, in quanto simbolo di luce, diviene simbolo sacro nelle tre religioni monoteiste (giudaica, islamica, cristiana).

Più prosaicamente i Romani fanno ottimi affari col commercio dell’olio sulle rotte del mediterraneo, e l’importanza del prodotto aumenta esponenzialmente, fino a subire un brusco arresto con la caduta dell’Impero romano: i nuovi colonizzatori barbari, provenienti dall’Europa centrale e settentrionale, non sono avvezzi all’uso dell’olio, sostituito da grassi di origine animale.

Ne deriva un lungo periodo di oblìo, che si estende in Italia per tutto il Medioevo e il Rinascimento: l’olio è appannaggio della società povera, ignorante e contadina. Le fasce elevate della popolazione, nobili e ricchi, imbandiscono grassi banchetti carnei da cui il nostro viene escluso.

Bisognerà aspettare molto per la riabilitazione dell’olio, almeno fino al ‘900, quando, una serie di innovazioni tecniche nel sistema di frangitura che migliorano organoletticamente il prodotto finale, unite ad una nuova coscienza delle intrinseche proprietà salubri, portano alla sua riabilitazione.

In sostanza, è la scoperta e promozione della cosiddetta “Dieta mediterranea” ad opera del Professor Ancel Benjamin Keys, dagli anni ‘50 in poi, a dare nuova linfa alla reputazione dell’olio extravergine d’oliva, a tutt’oggi considerato vera panacea per la salute e riscoperto, oltreché dai semplici consumatori, anche da cuochi di fama: non è più così difficile trovare in certi ristoranti di fascia alta la carta degli oli, specchio di un cambiamento ancora in parte elitario, ma che continua inarrestabile. Prova ne sia la richiesta di prodotto in continua ascesa da parte di Paesi che non appartengono all’area mediterranea, e dunque non tradizionalmente adusi al consumo: Stati Uniti, California in primis, Sudafrica, Nuova Zelanda, Australia.

Dal campo alla bottiglia, il percorso

Per capire cosa sia esattamente un olio extra vergine d’oliva possiamo partire dalle solide certezze date dalla legge e dalla chimica.

Il D.L. 2568/1991, che disciplina e regolamenta tutto ciò che lo riguarda ci spiega come questo sia “olio d’oliva di categoria superiore ottenuto direttamente dalle olive e unicamente mediante procedimenti meccanici”.

La chimica ce lo descrive come un grasso che si presenta liquido a temperatura ambiente, composto per il 98% da trigliceridi (molecole composte da acidi grassi, soprattutto l’acido oleico, poi linoleico, palmitico, stearico, in misura minore) presenti quasi esclusivamente nella polpa della drupa, e per il restante 2% da composti di diversa natura, di cui i più importanti sono i polifenoli e i tocoferoli.

I primi inibiscono i processi di ossidazione negli acidi grassi, garantendo la stabilità dell’olio nel tempo, e dunque, ritardandone l’irrancidimento. Hanno anche azione antiradicale nel nostro organismo, proteggendo le membrane cellulari.

Tra i composti fenolici l’oleuropeina è responsabile dell’amaro, caratteristica positiva e desiderabile in un olio di qualità.

I tocoferoli, leggi vitamina E, dalle note proprietà benefiche, sono purtroppo facilmente degradabili, soprattutto in condizione di cattiva conservazione dell’olio, quali esposizione alla luce o a temperature non ottimali.

Per ottenere un olio integro in tutte le sue caratteristiche, la strada è impervia e ricca di tappe da rispettare rigorosamente, nei tempi e nei modi d’applicazione.

Il lavoro del produttore, spesso visto in chiave bucolica, raccolta delle olive, spremitura, e via con la fettunta, richiede un corredo di nozioni e una metodicità nell’ applicarle non indifferente.

Indispensabile partire da piante e olive sane, ovvero non attaccate da agenti patogeni, che non presentino lesioni, facilmente esposte a processi ossidativi o attacchi batterici.

Si ricordi il dramma Xylella che nel 2014 ha decimato la produzione in varie parti d’Italia, danneggiando soprattutto gli olivi pugliesi: a tutt’oggi continua la battaglia contro questo batterio che vive all’interno del legno e che ostruisce le “vene” in cui scorre la linfa delle piante, facendole seccare, propagato da pianta a pianta ad opera di alcuni insetti che pungono la corteccia per nutrirsi della linfa.

Il periodo di raccolta varia a seconda della cultivar, così come il metodo: essenziale non danneggiare la drupa che, integra, va lavorata immediatamente. Lo stoccaggio o l’esposizione agli agenti atmosferici possono compromettere l’integrità del frutto, che va franto il prima possibile, e comunque non oltre le 24 ore dalla raccolta.

Dopo la sgrossatura da foglie e rametti, e il lavaggio, le olive passano dal frangitore, dove vengono rotte per ottenere una pasta di granulometria variabile, a seconda dell’olio che si vuole ottenere. Segue la gramolatura: la pasta viene delicatamente smossa, in modo che l’olio si concentri, affiorando verso l’alto.

Tutto il processo avviene in assenza d’ossigeno, per preservare integre le caratteristiche del prodotto. Essenziale, onde evitare l’attacco di muffe e batteri, la pulizia degli ambienti e delle macchine del frantoio.

Ѐ questo il momento di separare l’olio da acqua di vegetazione e sansa: ad oggi il sistema migliore è farlo per centrifugazione, tramite moderni macchinari che riescono a compiere un lavoro efficace e veloce senza stressare il prodotto.

La fase dell’imbottigliamento reca con sé un dilemma: filtrare o no?.

Una certa tradizione romantica vede nell’olio torbido la garanzia del prodotto buono e artigianale, ma la verità è che la filtrazione libera l’olio dal sedimento, che alla lunga, irrancidendo, compromette la qualità finale: dunque, bottiglia oscurata, filtrazione e nessun contatto con aria e luce per avere un olio eccezionale che mantenga nel tempo le sue caratteristiche di fragranza.

La degustazione. Una premessa teorica...

E adesso sì che è arrivato il momento.

Ma prima qualche osservazione sul metodo, soprattutto per chi, quando si parla di analisi sensoriale e scheda di degustazione, pensa subito all’applicazione al vino.

Per l’olio nessuna importanza riveste l’esame visivo, tanto che lo strumento dei degustatori ufficiali è un bicchierino oscurato blu.

Non so voi, a me fa sorridere il ricordo di tutte le fiere dell’olio in cui immancabilmente ogni produttore vantava il bel verde del suo olio, nella bella bottiglia trasparente, a garanzia di eccellenza del prodotto. Ma tant’è: lo scopo benedetto di serate come questa è anche quello di sfatare certi miti.

Versata una piccola quantità nel bicchierino, opportunamente tappato, lo si fa roteare fra le mani, al fine di equiparare la temperatura dell’olio a quella ambiente: in questo modo gli aromi emergeranno con maggior nitidezza nel momento in cui, stappato il bicchiere, il nostro naso andrà ad indagare sul suo contenuto, inviando simultaneamente al cervello la prima, fondamentale, domanda che ci si deve porre nell’ambito di una degustazione di oli: i profumi che percepisco rimandano correttamente al mondo erbaceo e vegetale, all’oliva, o emergono devianze?.

Dopo l’olfattiva, si passa alla verifica gustativa, che avviene dopo aver immesso un sorso d’olio in bocca, per poi insufflare aria, con la tecnica detta dello strippaggio: buffo da applicare, efficace alla percezione retronasale degli aromi.

La scheda di degustazione si compone di due parti, in cui l’intervallo dei valori assegnati va da 0 a 10: nella prima si valuta l’intensità di percezione dei difetti, nella seconda quella degli attributi positivi. Di norma, ogni difetto riscontrato corrisponde ad un errore nel processo di produzione, tranne il “rancido”, dovuto a cattiva conservazione. Più i parametri positivi hanno valori simili, più l’olio viene considerato equilibrato, circostanza positiva ma non necessaria: esistono oli ottimi anche se sbilanciati nella parte amara o piccante, e chi meglio del nostro palato abituato agli oli toscani può comprenderlo?.

Potrei a questo punto chiedermi quanti dei lettori di quest’articolo considerino la narratrice affetta da logorrea, ma sprecherei altre parole, e forse non apprezzerei l’ovvia risposta, perciò senz’altro indugio passo alla degustazione vera e propria.

...e la parte pratica

Buona parte giocherà la Toscana, rappresentata da produttori di vera eccellenza.

Si parte subito con una varietà paradigmatica e diffusissima, il monovarietale Frantoio di Fattoria di Ramerino (Bagno a Ripoli), che dal 2000 ad oggi, ha compiuto un percorso qualitativo in continua ascesa, grazie al vulcanico proprietario Filippo Alampi, vero deus ex machina che segue con maniacale scrupolo ogni singola fase, dalla produzione alla commercializzazione: elabora anche moraiolo monovarietale, e blend delle olive aziendali.

Al naso si apre su sentori erbacei tipici, foglia di pomodoro e carciofo, netto ammandorlato. Esplosivo in bocca, trova la sua cifra nella piccantezza, a discapito del fruttato e dell’amaro. Un grande olio che come detto, non viene sminuito nella sua piacevolezza da un equilibrio leggermente sbilanciato nelle sue componenti.

Talmente fragrante e paradigmatico di quello che si può considerare un olio ottimo, da essere usato come pietra di paragone per il secondo olio in assaggio, quello proveniente dalla GDO, di cui ci viene svelata la provenienza da olive italiane e nient’altro. Dire che il paragone non regge è un blando eufemismo: non convince già alla prima olfazione, rimandando ad aromi poco freschi. Al gusto sa di rancido, la sensazione al palato è quella poco piacevole di mandorla stantia e aceto.

Duplice il difetto riscontrato: da una parte la lavorazione verosimilmente non effettuata a regola d’arte, dall’altra uno stoccaggio e conservazione delle bottiglie probabilmente non ottimali, hanno dato un olio danneggiato nell’integrità aromatica e precocemente degenerato.

Risolleva il morale l’olio calabrese da Nocellara del Belice delle Tenute Librandi.

Se è il trisavolo Michele a fondare l’azienda in quel di Vaccarizzo Albanese a fine ‘800, sono ad oggi i suoi nipoti a portare avanti una filosofia produttiva allo stesso tempo rispettosa del territorio e all’avanguardia, per ricavare un olio che è stato il primo a puntare alla qualità assoluta in una regione ancora legata a pratiche agricole tradizionali che, come visto, non sono sempre ottimali all’elaborazione del miglior prodotto possibile.

La prima cosa che colpisce è un’intensità più soffusa rispetto ai parametri a cui l’olio toscano ci ha abituati. Presenti in ordinata scansione profumi erbacei e floreali, nota agrumata ed erbette di macchia mediterranea. Molto piccante, moderato nell’amarezza, in retronasale perde leggermente l’eleganza degli aromi percepita in olfattiva.

Resta per noi toscani la difficoltà di capire appieno oli di gusto e sensibilità diversi rispetto a quelli presenti alle nostre latitudini, ma non manca l’apprezzamento per prodotti che riconosciamo d’eccellenza.

Toscana. Pelago. Leccino. Fattoria Altomena. Poche parole sincopate che per gli adepti dell’olio di qualità sono sufficienti a illustrare un mito e un simbolo dell’olio toscano. Nico Sartori, pioniere appassionato, sperimentatore, artefice di una serie di monovarietali e blend considerati vette d’eccellenza nel pur roseo panorama olivicolo toscano, non smentisce la sua fama nemmeno in questo caso: il suo, vox populi, sarà uno dei prodotti più apprezzati di stasera.

Fini, nitidi ma poco invadenti gli aromi che partono dal floreale e vegetale, arrivando alla mela annurca e alla frutta secca. Equilibrio di bocca esemplare, dove il fruttato, che si apprezza in apertura, lascia il passo nel finale al piccante, che va in tandem con l’amaro. Una prova di equilibrio funambolico eccezionalmente riuscita.

La Puglia dà i natali al monovarietale da Coratina di Mimì, azienda che prende il nome da Domenico Conserva, detto appunto Mimì, fondatore e grande appassionato d’olio prematuramente scomparso, il cui testimone è stato raccolto ed egregiamente portato avanti dai figli, che elaborano, fra monovarietali e blend, diverse linee di produzione.

La Coratina, potente al naso e speziata, rimanda al carciofo e alla cicoria, a testimonianza della dominanza amara che si riscontra anche in bocca. Seguono aromi di mandorla fresca. Fruttato e piccantezza sono comunque presenti nell’intento di tenere testa all’amaro di quest’olio, che per fragranza e bontà riscuote molti apprezzamenti fra i presenti alla serata.

Dalle stelle alle stalle, di nuovo: ci attende l’olio difettato, che appena arriva al naso rimanda alla calda umidità dei depositi di rifiuti organici: evidente odore di fermentazione anomala, avvinato e morchia, indice di cattiva lavorazione delle olive.

Il confronto con gli oli eccellenti di stasera è impietoso e serve come monito a ricercare la qualità che un naso uso ad esercitare una funzione critica, può, tutto sommato, facilmente riconoscere.

Non sappiamo niente di questo campione e, in fondo, credo continueremo tutti a vivere meglio senza niente sapere in merito.

Di nuovo in Toscana in terra di Chianti Classico, San Casciano Val di Pesa, dove si trova la La Ranocchiaia, azienda e frantoio, che ha fatto dell’elaborazione di olio da singole cultivar la propria cifra espressiva, e di cui ci viene presentato il Correggiòlo.

La nota olfattiva spinta e diretta è subito quella del carciofo e dell’oliva verde fresca.

Astringente in bocca, è tipicamente molto amaro, robusto, dalla peculiare personalità.

Perfetto contraltare dell’olio che conclude la degustazione, l’Olivastro Quattrociocchi (azienda di Alatri attiva dal 1888), monovarietale da Itrana.

Aromi erbacei freschi, mela e macchia mediterranea, sia all’olfazione che, più flebili, nella parte gustativa. Buon equilibrio nelle componenti amare, piccanti e fruttate, che però non fa sobbalzare dalle sedie come altri oli testati stasera.

La conclusione della serata, e i nuovi propositi

Ti chiedi sempre, quando traligni dal tuo, se sarà interessante, se riuscirà ad appassionarti: ebbene, le due ore e mezza di stasera sono volate in un soffio.

Merito di Serena Trapani che con leggerezza e ottima comunicativa è riuscita a far penetrare nei nostri cervelli nozioni di chimica che magari il professore del liceo ci fosse riuscito così bene ( quanti 4+, voto ossimoro per antonomasia ci saremmo risparmiati…), e nei nostri cuori l’amore viscerale per un prodotto iconico della mediterraneità al pari del vino, che però, ad oggi, non vanta lo stesso status: se è sempre più “normale” incontrare persone attente a quello che hanno nel bicchiere, stesso discorso non può essere esteso all’olio, spesso ancora rappresentato da bottiglie scadenti sugli scaffali dei supermercati per pochieuro,99 centesimi.

Siamo alla fine dell’anno, tempo di buoni propositi, dedichiamone uno all’olio: cominciamo a leggere davvero le etichette ponendoci le domande giuste (da dove provengono e come sono state frante le olive da cui quest’olio è stato ricavato? ), e ad applicare un corretto giudizio critico alle qualità olfattive ed organolettiche dell’olio che consumiamo, sia a casa, che al ristorante.

Ѐ il nostro oro verde: cominciamo a trattarlo davvero come un gioiello di famiglia!

Valentina Pizzino
Valentina Pizzino

Nata a Firenze da una famiglia di astemi, non ha mai dubitato che nelle sue vene scorresse Chianti Classico. Lavora fra i libri, ma gli scaffali che preferisce sono quelli delle enoteche. Il suo centro di gravità permanente è sempre ruotato attorno a una bottiglia.

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