2 marzo 2018

Sherry: uno, nessuno, centomila

Sherry: uno, nessuno, centomila

Spossati dai rigori di un freddo inverno che per ora non accenna a volgere al termine, stasera ci facciamo accompagnare volentieri da Anna Paola Coppi sulle dolci e calde coste dell’Andalusia, da Sanlúcar de Barrameda, che si affaccia sull’Oceano Atlantico, fino a una pittoresca località interna, Jerez de la Frontera, 25 km di distanza, per poi spostarsi giusto un po’ più a sud, di nuovo sul mare, località El Puerto de Santa María: un piccolo triangolo di terra (e vedremo che terra…) su cui si concentra tutta la produzione di questo vino liquoroso.

Un po’ di mitologia, un po’ storia, un po’ di letteratura…

Tutto ha inizio intorno al 1100 a.C. quando i Fenici approdano su queste coste e fondano la città di Gadiz, l’attuale Cadice, che però abbandonano presto: pare che il terribile vento di levante che spira di continuo porti la gente alla pazzia. Si spostano più all’interno e fondano una città nuova di zecca, dove portano anche la coltura della vite: Xera (Jerez). Plinio il Vecchio, e siamo nel 77 d.C., nella sua Naturalis Historia racconta l’apprezzamento di cui gode il vino qui prodotto.

Le esportazioni via mare sono fiorenti e ampiamente documentate già dal XIV sec., e crescono esponenzialmente nei secoli a venire, a decreto del successo riscontrato: Francesi, Scozzesi, Irlandesi, e Olandesi, nessuno vuole fare a meno di questo vino che proprio in virtù della fortificazione che subisce per resistere alle precarie condizioni di trasporto delle botti via mare, assume caratteristiche uniche e apprezzate.

Sono però gli Inglesi a siglare un contratto d’amore con lo Sherry che tutt’oggi perdura. Sono molti i commercianti inglesi che nel tempo si trasferiscono a Jerez per dare vita a una propria Bodegas, luogo dai connotati tutt’ora mitici, grembo in cui nasce ogni vino di Jerez, tanto che ad oggi è ormai attestato in zona un curioso meticciato di produttori anglo-spagnoli che, giacca di tweed e flamenco nel sangue, danno nome a famose etichette (per citarne un paio, Garvey, o il celeberrimo Osborne, la cui immagine-icona del toro cornuto campeggia inevitabilmente nella nostra mente quando pensiamo allo Sherry).

È nell’Ottocento che la zona di riempie di Bodegas, e contemporaneamente parte la corsa alla conquista del mercato americano, dove si riscontra il successo sperato: il vino viene apprezzato non solo in quanto tale, ma soprattutto usato nella miscelazione, arte di cui gli americani hanno lunga pratica. Lo Sherry Cobbler (semplicemente, 3 once e ½ di Sherry Amontillado, un cucchiaio di zucchero e fette d’arancia shakerati e serviti in tumbler con ghiaccio tritato), diventa rito irrinunciabile per ogni americano dell’epoca.

Purtroppo, come in ogni storia degna di veridicità, anche in questa arriva il momento della crisi, data da circostanze esterne diverse per natura: il successo e la forte richiesta danno vita a brutti cloni.

Lo Sherry non è tutelato da alcuna denominazione (istituita nel 1934, e solo nel 1996 la Spagna riuscirà ad ottenere l’uso esclusivo del termine “Sherry” in Europa), e, in men che non si dica il mercato è invaso da un fasullo Golden Sherry, di basso costo e ancora più infima qualità.

Fillossera, proibizionismo, crociate salutiste contro il solfato di calcio usato per acidificare il Palomino, uva principe dello Sherry, di per sé piuttosto anonima e neutra: tutte pietre che contribuiscono a distruggere l’immagine e la popolarità di cui il vino aveva goduto fino ad allora, e che lo relegano in una zona oscura in cui è rimasto almeno fino agli anni 50/60 del Novecento, periodo in cui viene riscoperto ad opera di una certa buona borghesia, che ama tenerlo nel mobiletto degli alcolici e farne sfoggio come vino “esotico”. La stessa borghesia che, da un’altra parte, concorre a formare l’idea che lo Sherry sia un noto liquore alla ciliegia, di cui pure si fa largo uso al tempo.

Ad oggi questo vino non ha ritrovato la notorietà di un tempo, anche a causa di cugini più illustri (vedi alla voce Porto) che lo relegano in secondo piano nell’attenzione del mercato e dei consumatori, ma sta crescendo sempre più uno zoccolo duro di suoi estimatori, che vantano avi illustri: William Shakespeare fa decantare a Falstaff nell’Enrico IV le virtù di questo vino (“Un buono Sherry ha in sé un duplice effetto. Ti sale su nel cervello, ti ci prosciuga tutti i vapori sciocchi e smorti e raggrumati che lo circondano, te lo rende perspicace, pronto, fantasioso...” ).

Edgar Allan Poe, in un racconto già evocativo dal titolo, Il barile di Amontillado, fa consumare al suo protagonista, Montrésor, un’atroce vendetta nei confronti dell’amico Fortunato, reo di un non ben specificato torto: lo attira nelle cantine del proprio palazzo, usando come esca la promessa di un assaggio di vino da una botte contenente prezioso Amontillado, e quindi lo seppellisce vivo.

E chi, fra i miei 25 lettori, non correrebbe il rischio di essere murato vivo pur di assaggiare il contenuto di una rara botte del proprio vino preferito?

Lo Sherry e la sua carta d’identità

Se è vero che questo vino è spesso inafferrabile perché rifugge da un canone esattamente delineato, è altrettanto vero che senza condizioni ben precise, non potrebbe mai esistere: vi è qui la coniugazione perfetta di quello che si intende per terroir.

Ottenuto principalmente da uva Palomino (arricchita per le versioni dolci da Pedro Ximénes e Moscatel), di poco nerbo, deve molto di sé alla terra da cui proviene: senza Albariza non esisterebbe Sherry. Un particolare suolo formato da carbonato di calcio in percentuale variabile dal 30% all’80%, argilla e silice, poroso, che immagazzina l’acqua, restituendola per capillarità alle viti, vittime del clima torrido e siccitoso.

Di solito lasciate appassire su stuoie dopo la vendemmia (che avviene generalmente nella prima settimana di settembre), le uve vengono poi ammostate e fatte fermentare alla stregua di ogni altro passito, in piccole botti di quercia lasciate scolme per il 10% del proprio contenuto.

È a questo punto che interviene un altro agente fondamentale per tratteggiare le caratteristiche del futuro Sherry: il lievito flor, un tempo alchimia casuale che si formava sulla superficie del vino con funzione di protezione ma anche arricchimento degli aromi, oggi abilmente controllato dagli esperti capataz (i capocantinieri): controllato e direzionato a proprio favore, questo sì, ma comunque strettamente interdipendente dalle caratteristiche e condizioni (temperatura, umidità, vicinanza al mare o all’entroterra) della Bodegas in cui riposano le botti.

Altro tassello fondamentale, l’intervento umano: quando si arriva alla fortificazione del vino, sta all’abilità del capataz capire qual’è lo stile d’invecchiamento più adatto ad ogni partita di vino: inibire o no la flor? quanto fortificare? assemblare e come? Fino o Oloroso?.

Se è presumibile che questi dilemmi abbiano fatto perdere il sonno a più di un capocantiniere, è sicuramente certo, per tutti gli Sherry, il sistema d’invecchiamento, unico e caratterizzante a cui verranno sottoposti: il metodo solera, sistema di botti comunicanti in cui il vino “scala” di botte in botte, di fila in fila, via via che viene spillato dalle ultime botti in basso. Il vino più giovane va a rabboccare continuamente le botti contenenti vino più vecchio, dando vita a un circuito virtuoso in cui il nuovo si amalgama e ridà vita al vecchio, per ottenere un vino dalla complessità eccezionale, che fa della peculiarità il proprio punto di forza: ogni bottiglia spillata avrà necessariamente caratteristiche uniche e difficilmente replicabili in quelle a venire.

Inutile dire che, per tradizione e possibilità data dal particolare sistema criadera y solera, si può arrivare a invecchiamenti non esattamente quantificabili, ma certamente molto lunghi, anche 40 anni e oltre.

La Degustazione

L’unico modo di degustare correttamente questo vino è accettare di abbracciare la sua ineffabilità, il suo rifuggere da modelli strettamente definiti, e Anna Paola Coppi è bravissima a comunicarcelo di bicchiere in bicchiere: non troveremo certezze in quello che assaggeremo, ma la vertigine di piacevoli e un po’ disorientanti sorprese. 

Bodegas Argüeso - Manzanilla San Léon Reserva de Familia: prodotto a Sanlúcar de Barrameda, fa parte della famiglia dei Manzanilla, è un Fino che viene prodotto sul mare: splendido colore giallo paglierino carico, elegante, sapido, minerale, dai sentori di lievito molto presenti, stupisce per l’incredibile bevibilità, a patto che venga servito a temperature piuttosto basse. Subisce dagli 8 ai 10 anni d’invecchiamento. La gradazione alcolica elevata (15°) va a bilanciare la parte acida molto spiccata, conferendogli buon corpo. In sala si azzarda l’abbinamento gastronomico con pesce, anche azzurro: e siamo già tutti naufragati in una dolce sera andalusa, una terrazza sul mare, tapas e un bicchiere di sherry fresco in mano… 

Bodegas Tradición - Amontillado VORS 30 Años: la sigla VORS sta per  Very Old Rare Sherry, e certo questo Sherry, elaborato con tecniche che rimandano alla tradizione più pura, molto vecchio lo è davvero: matura in media 45 anni.

Non subisce refrigerazione, né filtraggio o stabilizzazioni a freddo: si cerca di perseguire la naturalità in ogni fase della sua elaborazione. L’Amontillado è uno Sherry Fino che, alla morte del flor, prosegue un periodo d’affinamento in botte in ambiente ossidativo: da qui derivano il suo caratteristico colore scuro e i sentori di tostatura, ben presenti nel vino che ci viene servito dall’ineccepibile Martin Rance. Colore ambrato con riflessi mogano, aromi spiccati di frutta secca. In bocca è secco e sapido, regala un finale lunghissimo. Il grado alcolico decisamente importante (19,5°) non va a collidere con un’ottima facilità di beva.

Risulterà uno dei due vini più graditi della serata, a giudizio insindacabile della sala.

Si azzarda il matrimonio con un arrosto di carne: una delle difficoltà maggiori della degustazione è proprio centrare le combinazioni per vini che si discostano non poco dalle nostre consuetudini, spostando molto in là il baricentro della teoria degli abbinamenti. 

Bodegas Lustau - Palo Cortado Península: il Palo Cortado segna il confine fra Sherry Fino e Oloroso. Palomino al 100%, ha la stessa nota ossidativa dell’ Amontillado e la stessa finezza, ma in bocca palesa una morbidezza più affine all’Oloroso. Naso e bocca si prendono gioco di noi, uno rimandando a note tostate, anche dolci, l’altra decretando una decisa sensazione secca.

Colore oro scuro, con riflessi ambrati, invecchia per circa 12 anni. Grado alcolico elevato anche in questo caso, ma senza mortificare la bevibilità, fermo restando la temperatura ideale di servizio, che si attesta sugli 11°C. 

Stavolta il vino misterioso giunge fra capo e collo a metà degustazione, e lascia tutti perplessi sulla sua natura: splendido colore dorato intenso, di nuovo il naso inganna, rimandando a sentori floreali, eterei e di frutta secca; in bocca è setoso e potente, ma pur sempre secco, minerale e sapido, con lungo finale ammandorlato. Scopriremo più tardi essere la Vernaccia di Oristano Riserva DOC 1991 - Attilio Contini: vendemmia tardiva da uva Vernaccia 100%, non fortificata, che con le proprie forze arriva a segnare i 17°!. Viene invecchiata per almeno 10 anni (e può arrivare fino a 20) in caratelli di rovere e castagno, lasciati scolmi per consentire lo sviluppo di Flor.

Un “gemello diverso” dello Sherry, che svolge egregiamente la sua funzione di raccordo fra i vini secchi, fin qui testati e i due dolci finali. 



Bodegas Lustau - East India Solera: composto dall’80% di  Palomino e dal 20% di Pedro Ximénes, appartiene alla categoria molto particolare dei Cream, vini secchi assemblati a dolci da P.X. o Moscatel. Invecchiato nella zona più calda e umida della Bodegas, la sacristia, dove le temperature toccano i 45°-50°, riesce così a riprodurre i sentori di bruciato, tipici dei vini che viaggiavano nelle stive delle navi, dove subivano vere e proprie ustioni che gli conferivano aromi particolari. Color mogano intenso, ha naso complesso e maturo di caramello e intensa tostatura, spezie, cioccolato e scorza d’arancia. In bocca è decisamente dolce e pieno, ma con buona freschezza che riequilibra il sorso. Invecchia mediamente 12 anni in solera da 45 botti, e sviluppa un grado alcolico importante: 20°. 

González Byass - Matusalem Oloroso VORS 30 Años: altro Cream da Palomino 75% e Pedro Ximénes 25%, vinificati e fortificati separatamente e solo dopo 15 anni di solera assemblati, per concludere il percorso comune in bottiglia dopo ulteriori 15 anni di solera. Color caffè carico, è un vino sontuoso: al naso regala inebrianti note di caramello, cioccolato, frutta secca, caffè e legni pregiati. In bocca entra pieno, avvolgente, ma la nota zuccherina non annoia, sorretta da una buona acidità. Finale lunghissimo, dove le note di speziatura e tostatura continuano a persistere nel tempo. I 20,5° esprimono tutta la potenza di questo Sherry.

Vox populi decreta questo vino il migliore della serata, con ampio margine di consensi. 

Finale degno d’applauso per Anna Paola Coppi, sostituito dalle nostre mani che si agitano all’unisono nell’aria, onde non disturbare il riposo dei vicini.

È stato un bellissimo viaggio, che ha attraversato luoghi e tempi, e ci ha regalato la cognizione di un vino eccezionale nel vero senso del termine: le eccezioni al canone governano tutto il suo processo produttivo, che traligna di continuo, rifiutando l’omologazione di termini e stili. Il modo migliore per comprenderlo è probabilmente quello di rinunciare a priori a capirlo, liberare la mente, e godersi ad occhi chiusi un bicchiere di Amontillado o Oloroso, sognando in questo grigio gennaio le coste assolate dell’Andalusia, che, magari, ci sembreranno meno lontane.

Valentina Pizzino
Valentina Pizzino

Nata a Firenze da una famiglia di astemi, non ha mai dubitato che nelle sue vene scorresse Chianti Classico. Lavora fra i libri, ma gli scaffali che preferisce sono quelli delle enoteche. Il suo centro di gravità permanente è sempre ruotato attorno a una bottiglia.

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