2 maggio 2018

Se una mattina di primavera si va tutti a Vinitaly...

Se una mattina di primavera si va tutti a Vinitaly...

Se la nostra passione per il vino si potesse quantificare, oggi l’unità di misura sarebbe il tempo rubato al sonno domenicale: sveglia ad ora antelucana e alle 6.30 tutti in trepida attesa davanti ai due pullman che ci condurranno alla mèta: destinazione Vinitaly.

Mentre la strada mi corre accanto sgombra e spedita penso (scherzo dell’ora o della colazione mancata?) che Vinitaly sia, per gli enofili, quello che Sanremo è per chi ascolta musica: amato e criticato, soprattutto per l’organizzazione e le strutture a volte carenti, resta sempre il palcoscenico per antonomasia per i produttori di vino e i loro acquirenti, che oggi, in una spinta anglofona globale, sono chiamati pomposamente buyers.

I numeri urlati dai canali ufficiali della manifestazione hanno consistenze mitologiche: 15.585 vini per 4388 aziende rappresentate, un numero di visitatori di anno in anno sempre più consistente; bene o male che se ne pensi, se non passi da Vinitaly non esisti, che tu il vino lo faccia, lo distribuisca, lo rappresenti, o semplicemente lo consumi e lo ami.

FISAR non poteva, ovviamente, mancare, rappresentando larga fetta del mondo enoico, che parte dai semplici  appassionati per approdare ai tecnici veri e propri: presente, in forma istituzionale, con uno stand proprio e in forma privata, con due pullman pieni di sommelier o aspiranti tali, che alle 10 di una mattina velata si sono riversati nei 12 padiglioni del Palaexpo, ognuno alla ricerca del proprio personale Eldorado alcolico.

Mi avvicino alla manifestazione con duplice intenzione: da una parte l’attitudine del candido fanciullino che vuole scoprire più cose possibili, tutto e subito,  dall’altra una lista, stilata con ferrea intransigenza, dei produttori e dei vini imprescindibili per la costruzione della mia personale mappa enoica, che prevede poche soste, zero perdite di tempo e assaggi mirati.

Come ammonisce la saggezza latina, in medio stat virtus: fra fanciullini pascoliani e signorine Rottermeier, prevale un sano atteggiamento che mi porterà, nelle 7 ore di permanenza in fiera, a conoscere vini e produttori, davvero molto più disponibili di quello che le mie più rosee prospettive mi avrebbero spinto a sperare: non uscirò avendo visto e compreso tutto, ché per quello non basterebbero le sette vite dei gatti.

Ma, durante il tragitto a piedi verso il pullman del ritorno, sotto una pioggerellina fine quanto uggiosa, camminerò leggera, col pensiero in testa di essere riuscita a tracciare il “mio” percorso: parziale, privato, personale e del tutto arbitrario, trasversale fra i miei gusti e le mie inclinazioni.

Per chi lo vuol seguire, di seguito la cronaca di una serie di assaggi, che, forse, non rappresenteranno i vini più premiati o celebrati, ma per me di sicuro fascino. D’altronde non funziona così anche a Sanremo? la canzone più bella non è mai quella che vince, ma quella più amata….

Le Bollicine, ovvero tutto inizia dall’inizio…

...ma anche da metà volendo, perché il primo assaggio parte dal padiglione 8, sede degli stand Vinitalybio-Vivit, crogiòlo eterogeneo di produttori naturali notissimi o assolutamente sconosciuti: se l’occhio del profano volesse distinguere i primi dai secondi, basterebbe misurare dimensioni e consistenze delle lunghissime file che si dipanano da certi banchi.

Di Alessandra Divella, giovanissima e versatile produttrice di Spumanti Metodo Classico, factotum dell’azienda agricola che porta il suo nome, è da un po’ che se ne parla, prima in modo carbonaro, in ultimo sempre più diffusamente: in Franciacorta produce solo pas dosé, da microvinificazioni di Chardonnay e Pinot nero, con affinamenti di partenza in cemento e legno che non prevedono trattamenti aggressivi in cantina, e lunghe maturazioni, con permanenza minima sui lieviti di due anni.

Fresco, minerale e citrico il Blanc de Blancs, cremoso e pieno il Blanc de Noirs, con deliziose note aromatiche di piccoli frutti rossi. Più evoluto e complesso il Metodo Classico da Chardonnay e Pinot nero in parti uguali, che sosta 4 anni sui lieviti. Vini di sicuro carattere, a guisa di chi li elabora, che con discrezione e caparbietà si sta ritagliando un suo spazio in un mondo come quello del vino naturale che, mai come in questi anni ha prodotto vere e proprie celebrities.

A proposito di soliti e giustamente noti, bypasso La Distesa dove uno splendido Corrado Dottori, bello come un attore di Hollywood,  dispensa vino e filosofia e la siciliana Cos, dalle cui file io, piccolina e poco invasiva, avrei poche chance di uscire incolume, ma mi impunto allo stand di Arianna Occhipinti, perché l’obiettivo è lì a pochi passi da me, altrove quasi irreperibile, prodotto nel 2015 (dopo una pausa di un paio di vendemmie), in soli 1500 esemplari, che, anche a trovarli, non spuntano un prezzo proprio popolare: parlo del Passo nero, raro passito da Nero d’Avola, che in bocca entra caldo e pieno e, anche a non volerlo, ti ricorda il caldo asfissiante dell’estate siciliana, con sentori dolci e prepotenti, ripetitivi e lunghissimi di frutta stramatura, fichi, datteri, noci, miele bruno.

La Sicilia, l’isola che c’è...

È stata uno dei tanti fili conduttori che mi hanno portato da uno stand all’altro, non voluto, ma successo, come le cose belle perché inaspettate.

Come a suo tempo, durante una memorabile serata, ci ha spiegato Martin Rance, Etna vuol dire terreno vulcanico, che a sua volta si può declinare in Bollicine di rara mineralità ed eleganza.

Da Firriato apprendo la prima lezione di stile: il Gaudensius Blanc de Blancs, da Chardonnay e Carricante in parti uguali, riposa 30 mesi sui lieviti, regalando note salmastre e balsamiche di eccezionale intensità, declinate su un perlage finissimo. Più deciso e rotondo, di affinamento più importante il Blanc de Noirs a base Nerello mascalese in purezza, che  conferma, semmai ce ne fosse bisogno, quanto possano essere suadenti le uve autoctone declinate in versione spumantizzata.

Rimanendo coi piedi ben saldi sul vulcano, mi volgo verso il versante tradizionalmente più vocato alla viticoltura, quello ad est, dove Pietradolce da vecchie vigne prefillosseriche ad alberello ricava l’Etna bianco Archineri: Carricante in purezza, che da solo potrebbe valere il viaggio, tanta e tale è la varietà e complessità aromatica che un solo sorso dal bicchiere è in grado di regalare.

Per dilatare il tempo di sosta, non dico no ad un assaggio dell’Etna rosato da Nerello mascalese, fragrante e immediato, che racchiude in sé tutti gli aromi più accattivanti della macchia mediterranea.

...E la vertigine di non recuperare la Terraferma

Le isole, lembi di terra strappati al mare, regolati da usi propri, vicine, simili eppure così peculiari, anche nelle produzioni vinicole: i flussi marini spirano fino a lambire fazzoletti di vigne a volte impervi e piccolissimi, dove la mano dell’uomo sopperisce alle macchine, regalando bicchieri e sorsi di sartorialità pura.

Eppure l’omone che ho davanti, più che l’aspetto curato del sarto ha quello malandrino del pirata, abbronzatura di chi vive all’aria aperta, e mani segnate da un lavoro in vigna che non ammette sconti e deroghe. Mi spiega quanto sia difficile tenere a bada quei due ettari e mezzo di vigne a spericolato picco sul mare, che sull’Isola del Giglio rappresentano l’anima dell’Azienda agricola Fontuccia.

Mi mostra foto dove viti capricciose sembrano nascere da un sasso in bilico sul blu più profondo, e la domanda se valga la pena fare tanta fatica per avere una manciata di grappoli d’Ansonica mi muore sulle labbra non appena sono toccate dal Senti oh!, franco, e diretto in bocca, il vino d’apertura, che ben dispone palato e cuore al successivo Senti oh! Caperrosso, il cru aziendale che abbina ai profumi dell’Ansonica una struttura più importante, ma non certo mortificante alla beva.

Non so se l’affinità che provo sia dovuta al fatto che io e il pirata andremmo d’amore e d’accordo in fase di scelta dei nomi per i vini, ma non ho tempo di pormi il problema dal momento in cui assaggio il passito da Ansonica ‘Nantropo’, apostrofo iniziale e finale che racchiude in sé un vino eccezionale per freschezza e balsamicità, che in bocca chiude la partita degli aromi dopo un tempo infinito, lasciando un ricordo che tutt’ora non m’abbandona.

Lo bacerei volentieri il pirata, ma mi impongo rigore e mi congedo con una stretta di mano: il dolore è straziante in sé, ma dura giusto il tempo di arrivare dalla gentilissima signora che mi accoglie allo stand della Cantina Sedilesu, quindi è, tutto sommato, sopportabile: dall’isola del Giglio alla Sardegna la distanza spaziale non è poi così incolmabile.

Filosofia aziendale: prima si degustano i rossi, dopo i bianchi: preferirei farmi spellare piuttosto che contraddire la squisita gentilezza della mia ospite.

Dopo un lungo teorema attraverso tutte le possibili declinazioni del Cannonau, che mette a dura prova la mia resistenza all’alcool, date le gradazioni che sfiorano con tranquillità i 15°-16°, arriviamo a un vitigno autoctono bianco di Mamoiada da poco riscoperto, la Granazza: bianco che per struttura e intensità poco ha da invidiare a molti rossi, sorprendente nelle due versioni in cui viene presentato.

Il Perda Pintà 2015, affinato in barrique, ha un residuo zuccherino che non ti aspetti, sorretto egregiamente nell’equilibrio da una bella acidità. Il Perda Pintà 2013, frutto di macerazione spinta sulle bucce, è secco e complesso in bocca: per libera associazione mentale, facile pensare alla somiglianza con un prodotto mitico come la Vernaccia di Oristano, vicina geograficamente e di filosofia produttiva affine.

Ritorno coi piedi per terra, lo Stivale in pochi passi

Riconosco i miei limiti di bevitrice cólta, rivendicando però l’ approccio intellettuale a molte questioni sul vino e dintorni: Luigi Moio l’ho prima conosciuto per aver letto il suo illuminante “Il respiro del vino. Conoscere il profumo del vino per bere con maggior piacere”. Poi ho scoperto che in località Mirabella Eclano, Avellino, ha dato vita a un’azienda dove non si fa mistero di prediligere un approccio francesizzante alle vinificazioni, con largo, ma buon uso di barrique anche di primo passaggio, che ridisegnano i connotati di vitigni come Falanghina, Fiano e Greco di Tufo nel modo in cui sono comunemente intesi. La Falanghina Via del Campo 2017, il Fiano Exultet 2017 e il Greco di tufo Giallo d’Arles 2017 sono in perfetta scala ascendente per struttura e complessità. Aromi meno varietali e immediati a favore di intensità e concentrazione di profumi, vini pensati con un preciso intento produttivo, che, alla francese, diventano chiara espressione di un terroir. Fra tre campioni dei bianchi, non mi pongo il problema di quale sia il migliore: per me fra i contendenti vince l’Aglianico Irpino Terra d’Eclano 2015, blend proveniente da cinque vigne poste in posizioni diverse, che vanno a compensarsi nella ricerca del giusto prodotto finale: affinato nelle botti di secondo passaggio, dove viene prima elaborato il Taurasi riserva, sconta l’unico difetto di un tannino ancora un pò verde, che si levigherà grazie al tempo: freschezza e  succosità del frutto impareggiabili per un aglianico di grande razza.

Sfioro la Calabria, con la coscienza chiara che tutto non posso provare, ma non rinuncio a fare una sosta alle Cantine Viola per il Moscato passito di Saracena, piccolo gioiello da 3000 bottiglie l’anno, elaborato facendo essiccare naturalmente il Moscatello di Saracena, poi unito al  mosto concentrato ottenuto dalla bollitura di Guarnaccia e Malvasìa: aromaticità e dolcezza sono i connotati principali di questo passito, in cui frutta secca e sentori caramellati sono ben equilibrati dall’importante spalla acida.

Nemo propheta in patria...

Seguendo questa logica non mi lancio alla scoperta pionieristica in Toscana, e mi accontento di approfondire la conoscenza di una grande Vernaccia, come quella elaborata dal Colombaio di Santa Chiara, poche chiacchiere e tanta sostanza in ogni elaborazione: Vernaccia di San Gimignano DOCG Selvabianca 2017, Vernaccia di San Gimignano DOCG “Campo della Pieve” 2016 e 2015,  e L’Albereta Riserva 2015. Il percorso tracciato dal produttore è netto e paradigmatico di un grande bianco capace di invecchiare mantenendo aromi e potenziando l’eleganza. La vera sorpresa finale è una bottiglia di Riserva L’Albereta 2012 che mantiene intatta la fragranza, spingendo gli aromi verso un’evoluzione piacevole al naso e in bocca e fa gridare alla riscossa di un vino per molto tempo considerato come minore.

Benvenuti al nord

Salto un altro grande Metodo Classico che Martin Rance ci ha a suo tempo presentato, Fongaro, ma il sacrificio non è invano, e lo spostamento poco traumatico: resto in Veneto dove la Famiglia Dal Cero della Tenuta Corte Giacobbe presenta i suoi vini, partendo da un Soave dagli aromi deliziosi di melone e frutta gialla, minerale e fresco, che berne una bottiglia sarebbe un attimo.

Approdo poi a cose  più serie, ivi rappresentate da due Spumanti Metodo Classico, che nascono, vedi un po’, da terreni di origine vulcanica: il primo da Uve Chardonnay e Durella (in percentuale massima del 10%), sosta due anni sui lieviti e regala un vino dagli aromi di frutta bianca e fiori di camomilla dall’eccezionale piacevolezza.

Il secondo è la punta di diamante: il Lessini Durello Doc Cuvée Augusto, non dosato, da Uve Durella maturate in botti di rovere austriaco, sosta 50 mesi sui lieviti prima di essere imbottigliato. Il risultato è un vino dove l’immediatezza del varietale cede il passo ad aromi evoluti di burro di cacao, pan brioche e pasticceria dolce. Pieno e lungo in bocca, non ha niente da invidiare a cuvée più blasonate.

Per inciso, essendo il passaggio dal Soave allo Spumante un po’ brusco, ho fatto una tappa intermedia, soffermandomi sul Pinot Grigio delle Venezie Ramato, dimostrando una saggezza che non mi sarei mai attribuita: mi ha conquistato con i suoi aromi di frutta matura tropicale, di lunga permanenza.

Il tempo non rema dalla mia parte, si impongono- dolorose- scelte: sacrifico molto, ma non posso non fare un salto in Piemonte.

Non brillo d’originalità ma nessuno mi obbliga a farlo, e scelgo di rimanere in una beata comfort zone: Vietti mi regala due versioni comme il faut di Barbera d’Alba Doc 2016 e Barolo Castiglione Docg 2014, ma il dente batte dove la lingua duole, e quando scorgo da lontano la foto anni ‘70 di uno splendente Giacomo Bologna non resisto, seguo la massa e per amor di Braida rimedio qualche gomitata.

Ognuno si sceglie e segue i propri profeti; uno dei miei è sempre stato quest’omone, che esortava bonario:

“Costruitevi una cantina ampia, spaziosa, ben aerata e rallegratela di tante belle bottiglie, queste ritte, quelle coricate, da considerare con occhio amico nelle sere di Primavera, Estate, Autunno e Inverno, sogghignando al pensiero di quell’uomo senza canti e senza suoni, senza donne e senza vino, che dovrebbe vivere una decina d’anni più di voi”.

La Barbera del Monferrato doc La Monella avrà sempre un posto speciale nel mio cuore, rivendico il mio essere totalmente di parte.

La Barbera d’Asti Docg Montebruna 2016, la Barbera d’Asti Docg Bricco della Bigotta 2013, vini notissimi, che non hanno bisogno della mia presentazione, ma che vanno bevuti in una sera d’inverno in ottima compagnia per comprendere nel migliore dei modi cosa voleva trasmettere chi li ha concepiti.

Alto-Adige- Firenze, ti volti ed è già l’ora del ritorno

Sia mai che qualcuno mi possa tacciare di razzismo enologico, un ultimo tuffo in Alto Adige non me lo toglie nessuno. Le lancette dell’orologio mi rimbombano in testa come la pendola nei racconti di Edgar Allan Poe, ma decido per il colpo di coda, che ha nome Manincor ed Elena Walch: parte il toto Schiava, Pinot nero, Lagrein.

La metà campo Manincor sfodera i tre, correttissimi, Schiava der Keil 2017, Pinot nero Mason 2016, Lagrein Rubatsch 2016, ma la Walch la spunta suscitando più sentimento.

Parto adagio, col Rosé 20/26, da Merlot, Pinot nero e Lagrein, un chiaretto di frutto pieno e spiccata freschezza.

La Schiava Per sé 2017 segna il crescendo, piacevole nella sua semplicità.

Si comincia a fare sul serio col Pinot nero Ludwig, trionfo di freschezza e aromi fini di ribes rosso e piccoli frutti del bosco.

La chiusura decisa è col Lagrein Riserva 2014 Vigna Castel Ringberg, strutturato e potente nei suoi aromi, di eccezionale persistenza.

Chiusura dolce di questa giornata affidata al Cashmere Alto Adige passito 2013 da Gewürztraminer, l’ultimo di una serie di passiti che oggi sono stati una preziosa scoperta: la freschezza fa da contrappunto ad aromi di frutta bianca stramatura e balsamicità spiccata.

L’unica regola del viaggio è: non tornare come sei partito. Torna diverso.
(Anne Carson)

La giornata è volata ed è stata memorabile in tutti i suoi aspetti: anche il sacrificio del pranzo a base di piadina carbonizzata col prosciutto, sbocconcellata di fretta sullo scalino di un marciapiede malmesso, assume un suo significato, e un alone poetico nella dimensione dei ricordi che già evolvono nella mente, a formare la mia personale mitologia.

Mi affretto a passo da velocista verso il pullman insieme alla mia preziosa e saggia compagnia, senza il cui aiuto non avrei mai saputo muovermi nella giungla dei padiglioni: ahimé, difetto del tutto del più elementare senso dell’orientamento.

Il ritorno verso casa, attraverso la sera che scende, ha il gusto pacato dei pensieri  a ritroso: la giornata è volata, siamo tutti gli stessi della partenza, magari con qualche grado di stanchezza in più, ma allo stesso tempo siamo diversi. Ognuno ha seguito il proprio percorso, arricchendosi di esperienze diverse: grazie a FISAR che come una mamma premurosa, ci ha accompagnato, ma poi ci ha lasciato liberi di sperimentare in quell’enorme parco divertimenti che è stato per tutti noi Vinitaly.

Al prossimo viaggio!

Valentina Pizzino
Valentina Pizzino

Nata a Firenze da una famiglia di astemi, non ha mai dubitato che nelle sue vene scorresse Chianti Classico. Lavora fra i libri, ma gli scaffali che preferisce sono quelli delle enoteche. Il suo centro di gravità permanente è sempre ruotato attorno a una bottiglia.

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